Intendiamoci: nessuno ha mai seriamente pensato che il numero potesse essere 0. Ma siamo alla lotteria. Quanti miliardi di euro mancano all’appello? Meno 10? 20? 30? 40? 45? Non stiamo sparando a caso. Dietro ognuno di questi numeri ci sono solide motivazioni. Ma tutti, anche il più piccolo, ci dicono che chiudere il buco aperto nei conti pubblici sarà un’impresa disperata e – forse – impossibile. Sia sul piano economico che – ove Giorgia Meloni ci sperasse – su quello politico. Sono passati una manciata di giorni da quando la Ue ha aperto una procedura d’infrazione per deficit di bilancio e Roma ha tempo fino a ottobre per rispondere. Ma è già un incubo. Se ne uscirà con un triplo salto mortale o, più semplicemente, con una supermanovra lacrime e sangue. O, magari tutt’e due. Il nuovo Patto di stabilità che sta entrando in vigore consente, infatti, di ragionare su programmi pluriennali e con qualche margine di flessibilità. Ma presuppone che si pongano condizioni che, in Italia, potrebbero scatenare una rivolta “contro la troika” (i profeti dell’austerità di dieci anni fa), anche nelle fila della maggioranza.
Partiamo dai fondamentali. Il governo aveva stimato una crescita del Pil, nel 2024, dell’1 per cento, a salire negli anni successivi. Ma non ci crede nessuno. L’Italia ha avuto uno sviluppo (relativamente) sostenuto, negli ultimi due anni, sostanzialmente per effetto degli investimenti alimentati dal maledetto Superbonus nell’edilizia, che ha portato, da solo, un punto in più di Pil, anche se ha guastato ancor di più la finanza pubblica. Ora, comunque, il Superbonus non c’è più. Dunque, l’Ufficio parlamentare del bilancio valuta una crescita 2024 dello 0,8 per cento. Gli organismi internazionali calcolano uno 0,7 per cento. La Banca d’Italia lo 0,6 per cento, quasi la metà del governo, anche perché l’inflazione scende. Più lenta la crescita del Pil nominale quest’anno, minore il trascinamento agli anni successivi. La Bce sta tagliando i tassi, ma ci vorrà più di un anno perché l’allentamento si trasmetta all’economia reale. E dunque? Minore il Pil, più alti i parametri negativi (deficit, debito) tutti calcolati in rapporto allo stesso Pil.
Ed eccoci al primo numero. In base al Patto, l’Italia deve ridurre ogni anno il deficit di bilancio (al netto degli interessi sul debito) di 0,5-0,6 punti rispetto al Pil, dice l’Upb. Ovvero di 10 miliardi di euro circa. E’ una valutazione ottimistica, quella dei tecnici del Parlamento? Gli esperti di Bruegel (un think-tank europeo) calcolano, invece, che se l’Europa pretendesse un aggiustamento in quattro anni, anzichè in sette, come non si può escludere, il consolidamento fiscale annuale necessario arriverebb all’1,1 per cento, il doppio. Vuol dire non 10, ma 20 miliardi l’anno. In prospettiva, è una manovra molto pesante. Negli anni neri 2010-2013, al culmine della crisi dell’austerità, quando l’ombra della troika aleggiava sull’Europa, l’aggiustamento lacrime e sangue fu inferiore: 0,9 punti, 17 miliardi circa.
Dieci o venti? Ma questo è solo l’inizio. Gli esperti, compreso un critico come Carlo Cottarelli, ritengono che questo aggiustamento fiscale si possa fare. In fondo, è quanto già prevedeva il governo nei documenti di marzo. Ma il trucco era far finta che non ci fossero provvedimenti cruciali da rifinanziare per l’anno prossimo. Nel caso specifico la limatura al cuneo fiscale e la rimodulazione dell’Irpef. Sono centinaia di euro l’anno già in busta paga. Il governo li toglierà dalle tasche degli italiani? Ma costano – conferma l’Upb – circa venti miliardi. Lo stesso ministro del Tesoro ha detto che quei provvedimenti verranno rinnovati. Allora, però, il buco che si troverà di fronte a settembre, non è di 10 miliardi di euro, ma di 30 (10+20), se ha ragione l’Upb. Di 40 (20+20) se hanno ragione i pessimisti di Bruegel.
Finisce qui? Neanche. Il Parlamento ha appena approvato la legge sull’autonomia finanziaria delle Regioni. Nonostante i clamori (di entusiasmo, da una parte, di riprovazione dell’altra) è poco più di una dichiarazione di intenti, come capita spesso con la Lega. Perché la legge entri in vigore, bisogna (lo specifica la legge stessa) che si accertino i Livelli essenziali delle prestazioni, per parificarli in tutte le Regioni. Il governo si è dato due anni di tempo per quantificarli. Se volesse accelerare, come piacerebbe a Salvini, dovrebbe anche accelerare la ricerca delle fonti per finanziare questi Lep. Quanto costa assicurare lo stesso livello base di prestazioni fra Calabria e Lombardia? Difficile dirlo ora. Però gli italiani del Sud, oggi, spendono oltre 4 miliardi di euro l’anno per andarsi a curare al Nord.
E, alla fine, c’è la vendetta della politica. Giorgia Meloni si augura probabilmente, una vittoria di Marine Le Pen alle prossime elezioni francesi, che le darebbe, invece di Macron, una preziosa alleata in Europa. Ma faccia bene i suoi conti. L’esperienza storica dimostra che lo spread del vicino pesa. Le turbolenze sui mercati finanziari dei titoli francesi, in caso di stallo politico a Parigi, si trasmetterebbero facilmente anche ai titoli italiani. Nell’ultimo mese lo spread dei Btp, rispetto al Bund tedesco, è già salito di 20-30 punti. Gli esperti calcolano che 100 punti di aumento comportino un aggravio di interessi pari a 3 miliardi di euro l’anno.
Insomma, a voler mettere insieme tutti i passaggi problematici si schizza da un buco minimo di 10 miliardi di euro, verso i 50 miliardi.
Il problema per Giorgia Meloni è che ha in mano le fiches sbagliate. Governi nazionali ed europei politicamente più affini non sono affatto un vantaggio. Chi guarda con più tolleranza al contributo che i deficit di bilancio danno alla crescita economica sta a sinistra, non a destra. I popolari (in particolare tedeschi) che Meloni spera di agganciare sono i custodi dell’ortodossia e dell’austerità, come hanno dimostrato decine di volte in questi anni. Certi amici è meglio perderli che trovarli.
Maurizio Ricci