Il diario del lavoro ha organizzato, presso il Cnel, il seminario “Quale politica salariale per gli anni ’20?”, al quale hanno partecipato esponenti delle grandi imprese, sociologi, giuristi, sindacalisti e rappresentanti dell’associazionismo imprenditoriale.
Il lavoro diventa in Italia sempre più povero, ma i salari stanno vivendo una nuova stagione felice, almeno a leggere i risultati della contrattazione nazionale. Il tema salariale non è infatti quello più controverso nella contrattazione e gli aumenti sembrano generosi. Forse non tanto quanto servirebbe per ridare fiato ai consumi interni, ma in misura consistente. Effetto del timore per un possibile arrivo di un salario minimo garantito per legge? E comunque questi aumenti riusciranno a rendere appetibile il lavoro industriale?
Nel corso del seminario i vari interventi hanno tutti evidenziato il grave ritardo del nostro paese in fatto di produttività e la difficoltà che stanno vivendo le relazioni industriali e il sistema della contrattazione a dare quelle risposte, anche sul fronte retributivo, che nel corso del secolo scorso è stata in grado di dare.
Tiziano Treu, presidente del Cnel, in apertura del seminario esordisce ribadendo la necessità che il Cnel agisca per dare una validità erga omnes alla parte salariale dei contratti collettivi nazionali; una operazione possibile, sottolinea Treu, avallata anche dalla Corte Costituzionale. Per anni il Cnel non si era occupato del tema perché, spiega Treu, bloccato dall’art. 39 e non era un problema che sembrava urgente. Per Treu non sono solo i contratti pirata la causa dell’abbassamento dei salari, i contratti nazionali “buoni” sono spesso elusi, quindi bisognerebbe dargli uno status legale. Secondo Treu occorrerebbe quindi sperimentare per qualche anno l’erga omnes e monitorare i contratti, e se qualche contratto non tenesse, nonostante la contrattazione collettiva e la stampella legislativa, allora applicare il salario minimo.
Filippo Contino, responsabile delle relazioni industriali di Enel, sottolinea come i contratti nazionali stiano vivendo una fase di rinnovo, ma la rotta è puntare a innovare le parti sociali stesse. Esiste un problema dei contratti pirata e di legittimità delle parti. Sarebbe essenziale, secondo Contino, avere i contratti collettivi come riferimento e come erga omnes, ma come fare dal punto di vista legislativo? Le parti, secondo Continuo, devono prima riacquistare il proprio ruolo. Inoltre, per Contino le parti sociali devono capire come rendersi protagoniste, in un momento di stallo della politica, e mettere in mora il Governo su quello che serve alle imprese e ai sindacati maggiorente rappresentativi, non il contrario. L’Italia, a differenza di altri paesi che hanno avuto molti anni per metabolizzare un meccanismo come quello suggerito da Treu, e hanno delle certezze, incontrerebbe difficoltà, dato il periodo di distonia e delle crisi della contrattazione collettiva, per cui gli effetti non sarebbero prevedibili. Infine, secondo Contino bisogna lavorare sulla contrattazione collettiva e sui contratti per renderli più flessibili, snelli, e contribuire a far sì che le aziende sentano il bisogno di agganciarsi.
Michel Martone, giuslavorista presso l’Università La Sapienza, inizia la sua analisi marcando sia la difficoltà sistemica delle relazioni industriali nel garantire il minimo legale del salario, sia perché un intervento del legislatore, nella prospettiva di introdurre un salario minimo per legge, è sempre più plausibile. Allora se vogliamo provare a delineare una politica salariale per il prossimo decennio la prima mossa da fare, spiega Martone, sarebbe quella di combattere gli automatismi. Le risorse a disposizione sono poche e gli aumenti devono essere aggancianti alla produttività. C’è poi da affrontare la proliferazione dei contratti, esplosa durante gli anni della crisi. Per Martone le cause di questo fenomeno vanno ricercate nel fatto che il nostro sistema produttivo non ha investito nella formazione, adottando una logica al ribasso per poter competere sugli scenari globali, con ripercussioni negative sul costo del lavoro e i salari. L’Italia ha perso la sfida della produttività, rispetto ai competitors, sul secondo livello di contrattazione, e tutte queste tensioni sono defluite sulla contrattazione nazionale. Bisogna poi capire, afferma Martone, se si può intervenire per via legale e come. Prima di tutto bisogna partire dal fatto che non tutti i settori hanno gli stessi problemi. Dunque bisogna avere bene in mente che la concorrenza internazionale ha messo sotto forte stress il nostro sistema di relazioni industriali, che questo stress si è abbattuto maggiormente su alcune categorie di lavoratori e che i contratti nazionali con sempre maggiore affanno stanno dando le risposte e le soluzioni che erano stati in grado di produrre nel ’900, anche sul fronte dei salari.
Roberto Luciano Forresu, responsabile delle relazioni industriali in Pirelli, lega il tema del salario a quello della produttività. Le relazioni industriali devono dotarsi di strumenti nuovi, liberare risorse dove il sistema produttivo è in grado di crearle. Tutto questo non può prescindere, spiega Forresu, dall’affrontare seriamente il tema della rappresentanza, che costituisce il primo passo per imbastire qualsiasi discussione sul salario minimo legale, assieme alla definizione dei settori. Altro punto riguarda la contrattazione di secondo livello, che deve diventare una semplice sommatoria del livello nazionale, il cui compito è quello di definire sì le regole del gioco ma che non può dare risposte specifiche a differenze della contrattazione aziendale. C’è poi il tema della formazione e dello sviluppo delle competenze che per Forresu non può essere tralasciato per dare nuovo respiro alla produttività.
Bruno Serra, responsabile delle relazioni industriali di Eni, nel suo intervento analizza il tema del salario minimo legale, rimarcando come, per una sua eventuale introduzione, bisogna tenere conto della distinzione che c’è tra settore e settore. Alcuni sono molto più maturi e strutturati, altre realtà, invece, come quella dei rider effettivamente necessitano di una rete di protezione. Un’ulteriore questione alla quale porre mano è la proliferazione dei contratti e soprattutto come sia facile scegliere contratti lontani dal settore produttivo nel quale opera quella determinata realtà.
Roberto Benaglia, della Fai-Cisl, nel suo intervento parte dal tema della polarizzazione dei salari. Nell’Italia dove Pil e produttività sono alle corde, continua a crescere l’occupazione. Un’anomalia che si riflette nella crescita di un lavoro sempre più povero, in settore dove c’è una forte logica al ribasso sia del valore aggiunto che del salario. Come sottolinea Benaglia, non esiste un andamento unico nelle dinamiche salariali. Per il sindacalista cislino è opportuno intervenire sul cuneo fiscale, poiché aziende e lavoratori sono schiacciati da una tassazione pesante, di stampo novecentesco. Su questo versante la politica dovrebbe intervenire, piuttosto che sulla contrattazione. Dunque la sfida che si presenta è il sistema produttivo e non solo quella di agganciare la crescita delle retribuzioni ad una rinnovata crescita di produttività e competitività, e come poi redistribuire il valore generato dalla produttività. Altro punto è capire come remunerare al meglio il lavoro, in un momento di grandi cambiamenti. Per Benaglia bisogna portare avanti politiche contrattuali di secondo livello, ispirate anche dal primo, che portino le parti sociali a occuparsi di competenze e professionalità. Inoltre è necessario fare una riflessione seria sul salario minimo, che è uno strumento non per alzare ma per non abbassare troppo i salari.
Pietro De Biasi, responsabile delle relazioni industriali di Fca, individua nel calo vertiginoso della produttività la causa principale dei bassi salari. Un deficit che si ripercuote anche nella contrattazione di secondo livello. Il problema della produttività del lavoro è imputabile alla disomogeneità del nostro sistema produttivo, con un forte scarto tra imprese grandi e medio-piccole. Ma per De Biasi bisogna anche interrogarsi sul fatto se il nostro sistema di relazioni industriali abbia la capacità di premiare i salari nel momento in cui la produttività cresce e di non gravare sui costi aziendali, con un rialzo ingiustificato delle retribuzioni, quando invece scende. Resta il fatto che la contrattazione di secondo livello stenta ancora a diffondersi e la prospettiva di un nuovo centralismo attraverso l’erga omnes per De Biasi non è funzionale per combattere i contratti pirata.
Gino Colella, responsabile delle relazioni industriali di Ferrovie dello Stato, sottolinea come un trattamento minimo orario stabilito per legge sia deleterio, almeno per le grandi imprese. Questo perché ci troveremmo davanti a una fuga dai contratti collettivi e a un peggioramento anche delle condizioni normative. Un’altra cosa è invece spingere attraverso rappresentanza, facendo ricorso al Patto per la fabbrica, che ha indicato come individuare quelli che sono i trattamenti minimi salariali e quelli legati alla produttività e al welfare. Altro tema sul quale insistere, secondo Colella, è provare a insistere su una descrizione di tipo professionale più che incentrata sulle mansioni, da inserire nelle declaratorie dei contratti. Infine per contrastare il dumping contrattuale si potrebbe pensare di defiscalizzare tutte quelle aziende che applicano i contratti firmati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative.
Pierangelo Albini, responsabile delle relazioni industriali di Confindustria, nella sua analisi evidenzia la difficoltà che il modello, nato nel secondo dopoguerra, sta vivendo, e per questi motivi la politica ultimamente sta tentando di sostituirsi al modello offertoci dalla Costituzione. Dunque, afferma Albini, sta tramontando quello scenario nel quale dovevano essere gli attori del mercato a regolarlo attraverso la contrattazione. Oggi, invece, il mercato ha preso il sopravvento e i salari non possono prescindere dalla competitività del sistema produttivo. Si è fatto fatica a tenere insieme questo modello all’interno delle relazioni industriali, che si sono frammentato e dove il centralismo non ha portato i risultati sperati. Ancora nelle relazioni industriali si è insistito nel mettere al centro tematiche salariali, tralasciando ogni discorso di politica industriale. Accanto a tutto questo, per Albini oggi c’è la velleità della politica non solo di dettare le regole del gioco, ma anche quello di indicare la condizione reddituale, attraverso il salario minimo legale. Dunque per Confindustria non c’è più, nel mercato, un’opposizione tra lavoro e capitale, ma tra lavoro/capitale e consumo. Se questa è la lente attraverso la quale leggere le dinamiche attuali, per Albini le strade che si aprono sono due. La prima consiste nel provare a salvare lo strumento contrattuale e il modello delle relazioni industriali, e ammodernarli in vista delle nuove sfide. Per fare questo la politica deve svolgere un’azione di tutela. La seconda strada porta all’articolo 36 della Costituzione, e nel riconsiderare tutto il sistema fiscale e di welfare.
Riccardo Sanna, Chief Economist della Cgil, afferma che parlare di politica salariale vuol dire anche parlare di produttività. Sanna spiega che quando si tocca il tema della produttività non ci si riferisce solo a quella connessa al lavoro, ma anche quella del capitale e del totale dei fattori. Per il sindacalista della Cgil il gap che l’Italia ha accumulato, in questi decenni, rispetto agli altri paesi dell’Ocse riguarda proprio la produttività totale dei fattori, che misura lo stato di salute dell’intero sistema produttivo. Farsi carico di questo aspetto, per Sanna vuol dire affrontare alcuni punti. Il primo è quello della domanda che, rispetto agli anni pre-crisi, è salita solo per le esportazioni, ma investimenti e consumi sono ancora fermi al palo. Altro problema riguarda la disomogeneità del nostro sistema produttivo, che si manifesta attraverso diversi fattori. Per Sanna le organizzazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative devono farsi carico di queste istanze all’interno del perimetro delle relazioni industriali, ma senza che venga meno il terzo attore, ossia il governo, che deve tracciare la via per quanto riguarda la politica industriale, l’innovazione e gli investimenti. Dunque il tema salariale non può prescindere da una visione che metta assieme fisco, welfare e contrattazione. Per la Cgil è opportuno una redistribuzione del reddito e una revisione del sistema fiscale. Sul versante del welfare contrattuale, per Sanna questo non può mai essere sostitutivo né del salario né del sistema pubblico. Infine nella contrattazione il sindacalista riscontra non solo il problema dei contratti pirati, che deve essere affrontato con la pesatura della rappresentatività da ambo le parti, ma un vulnus nella capacità di rappresentanza delle parti sociali.
Giovanna Bellezza, responsabile delle relazioni industriali di Telecom, analizza il tema salariale concentrandosi sul mondo del welfare integrativo, che sempre di più sta diventando un appoggio imprescindibile del pilastro pubblico, andandolo, a volte, anche a sostituire. Le defiscalizzazioni tracciate dalle recenti leggi di bilancio di molti servizi legati all’istruzione, alla cura e alla previdenza ha dato un’indicazione, afferma Bellezza, abbastanza precisa su come si possa intendere oggi la politica salariale. In questo modo lo stato va a chiedere aiuto al sistema produttivo su materie di sua competenza come appunto il welfare. Convertire una parte del salario in pacchetti di welfare vuol dire per le aziende trovare una via d’uscita alla spada di Damocle del cuneo fiscale, che rappresenta un fattore frenante per la creazione di valore aggiunto. In tutto questo, afferma Bellezza, il welfare diventa particolarmente prezioso, soprattutto per i salari più alti. Bellezza, tuttavia, non nasconde le criticità che il welfare contrattuale porta con sé. Prima di tutto perché non può esistere un welfare aziendale omogeneo, ma varia coi bisogni della popolazione lavorativa. Inoltre si tratta di un sistema non inclusivo, che comprende solo alcuni lavoratori di specifici settori, escludendone altri.
Giampiero Giacardi, responsabile delle relazioni industriali di Autostrade per l’Italia, parte dall’esperienza di Autostrade, un settore molto regolato, all’interno del quale, tuttavia, convivono contratti diversi, che ha visto, di recente il rinnovo del proprio contratto. Al livello generale, sostiene Giacardi, la produttività è il vero argomento dirimente, che deve essere affrontato dai soggetti del sistema produttivo e delle relazioni industriali. Altro elemento da non sottovalutare è il venir meno di un sistema integrato, nel quale sta sempre di più prendendo piede l’affermazione di un rapporto di lavoro personalistico tra lavoratore e azienda. Infine c’è la sfida del digitale, delle nuove competenze e della formazione verso la quale, il nostro sistema è ancora reticente.
Riccardo Verità, responsabile delle relazioni industriali di Ania, parla della realtà del mondo assicurativo, un settore che ha puntato molto sulla formazione per riqualificare le risorse per affrontare la sfida delle nuove tecnologie e della digitalizzazione. Altro versante sul quale il mondo delle assicurazioni si sta attrezzando per cambiarlo, spiega Verità, è quello degli inquadramenti, ancora fermi a qualche decennio fa. Sul versante salariale, per Verità c’è da fare un lungo lavoro, da portare avanti gomito a gomito coi sindacati.
Giovanni Airoldi, responsabile delle relazioni industriali di Acea, sul tema dei salari vede uno scenario globale con qualche segnale di ripresa. Gli ultimi rinnovi contrattuali, di diversi comparti, hanno portato ai lavoratori incrementi salariali non da poco. In fase di contrattazione, afferma Airoldi, incentrare il discorso unicamente sul minimo tabellare o sugli scatti di anzianità ha perso appeal, poiché quando si parla di retribuzione non si può non tenere conto anche del welfare. Il tema salariale si intreccia anche con quello dell’equità, declinata sia dal punto di vista di genere, parità retributiva uomo/donna, sia per quanto riguarda le mansioni. Una stessa mansione non viene svolta in modo identico da due lavoratori. Dunque per Airoldi andrebbe rivisto il sistema di classificazione e gli strumenti che il contratto nazionale mette a disposizione, molti dei quali sono ormai superati. Da ultima la produttività. Per Airoldi non bisogna solo affrontarla dal punto di vista sistemico ma anche nel dettaglio, puntando su premialità rivolte al singolo.
Cristina Cofacci, responsabile delle relazioni industriali di Leonardo, parte dall’ultima esperienza contrattuale del suo gruppo industriale, dello scorso dicembre, nella quale è stato definito l’aumento del premio di risultato. Altro versante sul quale si dovrà poi lavorare, afferma Cofacci, è quello della formazione e soprattutto dell’occupabilità dei lavoratori. I processi digitali e innovativi faranno sì che alcuni comparti potranno ancora sopravvivere, altri no. In questo scenario è dunque fondamentale avere una forza lavoro flessibile e facilmente reimpiegabile.
Mimmo Carrieri, sociologo del lavoro e dell’economia all’Università La Sapienza, porta al tavolo tre punti dai quali partire: c’è un problema, quale nello specifico, chi deve intervenire e come. Nella prima area Carrieri pone la proliferazione dei contratti, la moltiplicazione dei lavoratori con bassi salari in corrispondenza di poche ore di lavoro e la caduta delle produttività. Uno scenario che evidenzia problemi sistemici. Ma chi può intervenire? Le parti sociali lo stanno facendo, ad esempio attraverso il patto della fabbrica. Ma l’azione delle parti sociali mostra, anche, i propri limiti e le proprie debolezze. Per Carrieri sorge infatti un problema di regolamentazione ad ampio raggio, del quale deve farsi carico il governo. Tuttavia la forte incertezza politica getta delle ombre sulla effettiva capacità del sistema di porre mano a tali questioni, per ridare slancio a un lavoro di qualità, tutelato e non povero. Dunque quali strumenti adottare? Nei rinnovi contrattuali le parti stanno facendo ricorso a un ventaglio di utensili molto ampio, come il welfare, politiche degli inquadramenti e formazione. C’è, inoltre, il tema di potenziare ulteriormente la contrattazione decentrata, ma, nonostante i buoni propositi, specifica Carrieri, la sua diffusione stenta ancora a decollare nel nostro sistema produttivo, per tutta una serie di problematiche. Dunque, spiega Carrieri, se ci vogliamo ancora muovere nel terreno delle relazioni industriali è innegabile che serva una misurazione della rappresentanza degli attori coinvolti, dando attuazione all’articolo 39 della Costituzione. C’è poi il piano alternativo, ciò quello di dare validità erga omnes ai contratti collettivi, stabilendo i soggetti legittimati a firmali. Da ultimo il salario minimo legale, che potrebbe essere approntato per i lavori poveri, ma che andrebbe inserito all’interno di una prospettiva più ampia.