Uguaglianza salariale, questa sconosciuta. Indagini, analisi e studi ormai da tempo certificano un divario retributivo tra uomini e donne a parità di mansioni e competenze. Una distorsione che interessa, in modo più o meno marcato, tutti i paesi dell’Unione europea. Il gender pay gap si attesta nel vecchio continente al 12%, secondo gli ultimi dati del 2023. Tradotto una donna, a fine anno, percepisce uno stipendio e mezzo in meno e questo inciderà anche sulle pensioni, che mediamente saranno più povere del 30% rispetto ai colleghi maschi. Per arrivare a una piena equiparazione retributiva, principio già presente nel Trattato di Roma del 1957, l’Unione europea ha adottato, nell’aprile del 2023, la direttiva 970 per arrivare alla trasparenza retributiva, il cui recepimento da parte degli stati dovrà avvenire entro il giugno del 2026. Direttiva che sta trovando poco spazio nel dibattito politico e pubblico come sottolineato nel corso dell’evento organizzato dalla Cgil “Verso la parità salariale? La sfida della direttiva UE sulla transparency in Italia”, al quale hanno partecipato sindacaliste delle varie categorie della confederazione ed esponenti del mondo accademico.
Ma cosa prevede la 970? I principi generali parlano di un potenziamento della trasparenza dei sistemi retributivi all’interno delle aziende, della necessità di dotare, soprattutto le lavoratrici, dei mezzi necessari per affermare il proprio diritto ad aver riconosciuto un eguale stipendio e rafforzare l’applicazione dei diritti e degli obblighi in materie di equità salariale. La direttiva, inoltre, interviene anche sul piano giuridico. In caso di contenzioso l’onere della prova, ossia dimostrare che non esistono fattori discriminanti sul fronte retributivo, spetta al datore di lavoro. Inoltre il testo prevede che in caso di rigetto dell’istanza del lavoratore non gli vengano attribuite le spese processuali poiché si riconosce che il lavoratore, che molto spesso non ha piena contezza della politica retributiva dell’azienda, abbia comunque avuto motivi plausibili per portare il datore di lavoro in tribunale. E questi, nel caso in cui venga accertata una reale disparità salariale, sarà costretto a risarcire le retribuzioni arretrate e i bonus non percepiti, ma anche il danno per le opportunità perse e quello immateriale subito a causa della discriminazione.
In concreto con la direttiva cadrà il segreto salariale durante il reclutamento del personale, l’azienda non potrà imporre clausole di riservatezza nel contratto dei propri dipendenti. Tutto questo, tuttavia, impone la ricerca di un equilibrio tra il dovere della trasparenza e quello della privacy e della tutela dei dati personali, maggiormente sentito nei luoghi di lavoro più piccoli dove si potrebbe più facilmente risalire a una singola persona specifica. Ci sarà, in aggiunta, l’obbligo per le imprese, con tempi diversi a seconda della grandezza, di monitorare e quindi comunicare lo stato delle retribuzioni, obbligo che si trasforma in volontarietà se il numero dei dipendenti è inferiore a 100. E se il divario retributivo supera il 5% azienda e rappresentanze dei lavoratori dovranno fare una valutazione congiunta per trovare soluzioni.
Tutto questo come si cala nel contesto italiano? Una prima considerazione che va fatta riguarda la natura del nostro tessuto produttivo, composto in prevalenza da aziende che difficilmente superano i 100 addetti. Quindi una parte del dovere alla trasparenza viene depotenziato, perché il reporting da obbligatorio diventa volontario. Sarà dirimente capire anche come il nostro paese attuerà la normativa. “Se il governo non vuole una direttiva, perché la contrattazione copre la quasi totalità dei lavoratori a maggior ragione le parti sociali dovranno avere una vera voce in capitolo” ha detto Fausta Guarriello, docente di diritto del lavoro all’Università di Chieti-Pescara. “Il contratto collettivo pone dei minimi salariali, uguali per tutti, ed è nel salario accessorio che emergono le disparità, ma individua anche i criteri per l’inquadramento professionale, centrale per una identificazione del valore del lavoro. La seconda leva è la contrattazione di secondo livello ma questo richiede un grande investimento in formazione e informazione nella rappresentanze sindacali in azienda”.
L’altra grande sfida che pone la direttiva è quella di arrivare a dei criteri, come hanno ribadito Laura Calafà e Marco Peruzzi, docenti di diritto del lavoro all’Università di Verona, che il testo non definisce, per una valutazione neutra e priva di pregiudizi del valore del lavoro. Questo è un passaggio imprescindibile perché permette di definire due lavori identici e quindi ravvisare eventuali difformità nel trattamento economico. Alcuni paesi lo hanno già fatto, come la Spagna che ha redatto una vera e propria guida, che non ha un valore vincolante, per stimare l’effettivo valore di un lavoro. Gli standard individuati cercano di cancellare alcuni aspetti che avrebbero alimentato la disparità di genere. Per determinare l’esperienza nello svolgere una mansione non si tiene conto dell’anzianità, visto che questa sarebbe ad appannaggio prevalentemente degli uomini che hanno carriere più continue delle donne. Così come non si guarda esclusivamente al peso economico dentro l’azienda per definire una mansione perché questo è generalmente in capo a chi ricopre ruoli apicali e quindi in maggioranza uomini. Allo stesso tempo, tra i lavori usuranti perché richiedono di sollevare pesi, vengono poste sullo stesso piano occupazioni più tipicamente maschili con altre a maggior presenza femminile, come le infermiere che devono alzare i pazienti.
“Quello del gender pay gap è un tema che non solo richiede normativa sempre più avanzate ma anche un cambio culturale profondo. C’è ancora una forte segregazione occupazionale delle donne in certi settori e in determinate posizioni” ha detto la segretaria confederale della Cgil, Lara Ghiglione. Mentre Francesca Re David, anch’essa segretaria confederale del sindacato di Corso d’Italia ha messo in guardia “sull’arretramento e lo smantellamento del pilastro sociale europeo. Sui diritti, in Europa e in Italia, si sta prendendo una strada opposta”.
Tommaso Nutarelli