- Nel blog precedente dicevamo che i partiti politici, anche a sinistra, rappresentano più se stessi che la società che hanno intorno: non ci sono più i partiti di massa con le loro sezioni aperte la sera, i social media illudono i dirigenti politici di avere un rapporto diretto con i cittadini elettori, ma la società è molto più complessa e articolata dei followers. E i cittadini elettori in carne e ossa (e non virtuali) non vanno più a votare. Che ne è dei loro bisogni?
- Facciamo un passo indietro. Un tempo c’erano le classi, divise per reddito e per condizioni di lavoro. Ben separate fra loro ed omogenee all’interno di ciascuna. Poi, grazie alle lotte per migliorare salari e diritti, cominciò a funzionare l’ascensore sociale verso l’alto. E si ridussero le differenze tra la “classe operaia” e i “ceti medi”. Addirittura (questa è l’opinione di qualche sociologo) i lavoratori del settore industriale acquisirono condizioni di vita molto simili a quelli della piccola borghesia.
- Con la globalizzazione ci illudemmo (non tutti) che la divisione di classe fosse ormai superata (persino nei paesi in via di sviluppo). Ma con le crisi economiche e finanziarie globali l’ascensore iniziò a scivolare verso il basso. Nuove differenze fra le stratificazioni sociali e nuove polarizzazioni anche all’interno di ciascun ceto.
- Con le guerre in corso e il riassetto multipolare del mondo, si può prevedere che le “rendite di posizione” occidentali saranno rimesse in discussione settore per settore (dall’energia alla componentistica elettronica, dall’agricoltura all’automotive). Tanto che anche l’UE rischia di diventare un grande mercato di importazione e non più di esportazione.
- L’effetto sociale più evidente di tutte le contraddizioni in corso è che il lavoro non include più: non riesce più a garantire un reddito e un futuro dignitosi a chi lo svolge, non è più un veicolo di piena cittadinanza. Il lavoro differenzia invece che omogeneizzare. Chi ha competenze sempre più spesso lascia il lavoro dipendente. I giovani italiani laureati vanno all’estero in cerca di un lavoro adeguato ai loro studi. I giovani immigrati vengono “deportati” fuori dall’UE. Le imprese si lamentano che non c’è offerta di lavoro. Perché tutto questo? Qualche causa oggettiva e qualcuna più soggettiva.
- In Italia poche imprese industriali (la netta minoranza) riescono ad essere competitive sul mercato globale. Chi può fare concorrenza all’Asia o possiede tecnologie all’avanguardia (ancora meno imprese) oppure sposta altrove la produzione. Chi resta in Italia è “costretto”, dati i costi esterni, a contenere investimenti, occupati e retribuzioni. Tralasciando l’esistenza enorme di attività e lavori irregolari.
- Anche il terziario, che come numero di occupati è ormai più rilevante dell’industria, è spesso un settore povero, sia per qualità dei servizi erogati che per precarietà e retribuzione del lavoro. Basti pensare a quanto sono mal retribuiti gli operatori di due settori strategici come la sanità e la scuola. Per non dire della consegna a domicilio, basata su un lavoro “usa e getta”.
- I governi (centrali, regionali e locali), forse per carenze culturali oltre che di efficacia amministrativa, non attuano nessuna politica di promozione e valorizzazione dei prodotti, dei servizi e del lavoro. Anzi, cominciano (almeno in Italia) a frenare sulle transizioni ecologiche e a ridurre quantità e qualità del welfare pubblico.
- Come se gli incentivi a pioggia fossero sufficienti a indirizzare le imprese verso mercati a maggiore valore aggiunto. E come se i servizi ai cittadini fossero solo un costo e non un possibile settore economico di espansione del lavoro e del reddito. La politica (anche a sinistra), come abbiamo già detto, lancia i titoli, non sempre giusti, ma non riesce ad andare oltre. Con il risultato che i ceti medi e la “classe operaia” impoveriti votano a destra.
- Nemmeno sulla tutela del territorio (un secondo indispensabile Welfare) le istituzioni di governo (nazionale, regionale e locale) riescono a svolgere una funzione di manutenzione programmata e preventiva, preferendo (nei fatti) l’intervento in emergenza.
- Anche le organizzazioni sindacali (sia delle imprese che del lavoro) non sono riuscite finora ad andare al di là le buone intenzioni: sia per debolezze al proprio interno, sia per difficoltà unitarie, sia per non volontà di confronto. Manca una visione comune della situazione in cui siamo precipitati, manca ancor di più la volontà comune di uscirne. Si preferisce anche qui, come nei primi anni ’80, un intervento sulle singole crisi (alla ricerca degli ammortizzatori necessari) piuttosto che non una politica economica di innovazione e sviluppo preventivi nell’industria e nei servizi.
- Pur essendo ormai evidenti e sempre più urgenti i nuovi indirizzi da dare al sistema economico e sociale secondo le indicazioni ONU-ASviS sulla sostenibilità, i dati dell’ultimo rapporto ASviS 2024 “descrivono con chiarezza l’enorme ritardo dell’Italia nel percorso per raggiungere i 17 obbiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030”. E alcune regressioni.
- In questo vuoto di rappresentanza social-politica non c’è da stupirsi se i cittadini si sentono soli e abbandonati. Certamente sono più soli che nel secolo scorso, quando molti corpi intermedi svolgevano una funzione di raccordo tra i bisogni delle persone e le istituzioni. E, date le dinamiche demografiche, più soli anche perché ci sono più famiglie composte da un’unica persona e nascono meno bambini, come sappiamo. Ma la società si è auto organizzata per ridurre e supplire i vuoti tradizionali di rappresentanza politica e sociale.
- Un tempo, fino quasi alla fine del secolo scorso, le principali organizzazioni sociali funzionavano in accordo con le diverse forze politiche, ora agiscono per conto loro. Prima svolgevano un ruolo di dialogo con le istituzioni, oggi vivono di forme autonome organizzate e di volontariato cattolico e laico.
- Per avere un’idea della varietà e della vastità nazionale del mondo dell’associazionismo, basta guardare l’elenco delle adesioni ad ASviS che è senza dubbio la più grande rete di associazioni esistenti in Italia: oltre 300.
- Ma in ogni territorio, seppure con diversa diffusione e varie caratteristiche, a seconda dei bisogni e delle priorità, è presente un associazionismo locale che interviene sui bisogni primari dei cittadini che non vengono soddisfatti dalle istituzioni (gli alimenti, la casa, l’assistenza agli anziani, il trasporto, le relazioni interpersonali, la sanità, la scuola per immigrati, ecc.). Insomma, un welfare autogestito che attenua le lacune di quello pubblico senza ampliare quello privato e assicurativo.
- Difficile capire dove porteranno queste dinamiche scoordinate fra politica e società. A una rappresentanza politica che si fa viva con i cittadini solo quando ci sono le scadenze elettorali? A un sociale che si rafforza fino a diventare autosufficiente? O a un progressivo calo del benessere sociale ed economico a fianco di una perdita di peso della economia italiana? Personalmente non sono ottimista su quel che sta accadendo, anche perché questa auto rappresentanza sociale non è, fino a questo momento, in grado di passare dalle tante belle esperienze separate a una rete coordinata, omogenea e diffusa sul territorio nazionale.
- Che fare quindi? Prima di tutto riprendere gli obiettivi dell’Agenda Onu 2030 che rappresentano indirizzi precisi da adottare e progetti da avviare per evitare il declino ecologico, sociale ed economico del pianeta (dell’Europa, dell’Italia): per cambiare “modello di sviluppo” locale e globale. Le transizioni non si realizzano da sole e rinviare il passaggio a un’economia meno inquinante è un errore.
- Se la politica è al momento sorda a questi temi (quando addirittura non urla titoli opposti), forse sarebbe opportuno rafforzare il sistema della rappresentanza sociale dei bisogni dei cittadini, costituendo una rete nazionale diffusa e da lì riaprire un dialogo con le istituzioni di governo.
- Due percorsi complementari e non alternativi sono possibili in questa direzione. Uno top-down potrebbe aggiornare e allargare il “Patto per la fabbrica” (sottoscritto nel 2018 da tutte le parti sociali) con un “Patto per lo sviluppo sostenibile” da condividere tra sindacati e imprese (grandi e piccole, di tutti i settori), a partire da Confindustria. Un accordo tra lavoro e imprese presentato al Governo avrebbe più probabilità di avviare le politiche economiche coerenti e un uso non sprecato della spesa pubblica.
- E un percorso bottom-up convergente, in cui siano i territori a condividere priorità di intervento per un maggiore benessere ambientale, sociale ed economico da proporre (imporre) alle istituzioni di governo locale e regionale.
- Con “La via maestra”, il 7 ottobre 2023, la Cgil ha inteso avviare un processo aggregativo delle diverse rappresentanze sociali del Paese (nel rispetto delle singole autonomie). Forse sarebbe giusto e utile (anche urgente) continuare su quel percorso per dare una voce più forte alla rappresentanza sociale.
Gaetano Sateriale