- Se è vero, come è vero, che il numero degli occupati è cresciuto a livelli inattesi, se è vero, come è vero, che il Pil nazionale non cresce e che la produttività e i salari sono fermi da decenni, vorrà dire che qualcosa non funziona nel sistema di produzione della ricchezza.
- Se è vero, come è vero, che le diseguaglianze (sociali, economiche, dei servizi essenziali) aumentano anziché diminuire, sia tra i diversi territori del paese che all’interno delle città, vorrà dire che qualcosa non funziona nel sistema di redistribuzione del reddito.
- Se è vero, come è vero, che la spesa pubblica e il debito sono cresciuti negli ultimi anni al punto di farci mettere sotto osservazione (se non ancora sotto infrazione) da parte dell’UE, vorrà dire che c’è qualcosa che non funziona nell’uso che si fa in Italia delle risorse pubbliche.
- Se è vero, come è vero, che questi difetti sono antichi e non recenti, vorrà dire che, al di là della propaganda, sia i governi di centro sinistra che quelli di centro destra non hanno saputo (o non hanno voluto) promuovere politiche pubbliche attive per la crescita dell’economia e del benessere del Paese.
- Il 10 ottobre, sul Corriere della Sera, Sabino Cassese ha spiegato con grande lucidità il fatto che, malgrado i proclami giornalieri, nemmeno il Governo di destra (il primo dal dopoguerra) è stato finora in grado di rinnovare le politiche economiche e sociali che sembrano riprodursi con una negativa continuità da inizio secolo e che rischiano di far regredire l’Italia a un ruolo marginale in UE e nel mondo.
- A questa pre-fallimentare incapacità politica della maggioranza che ci governa (una maggioranza, non dimentichiamolo, eletta da una minoranza degli aventi diritto al voto), corrisponde una strategia alternativa da parte del centro sinistra? La risposta è purtroppo facile e spontanea: no, non esiste.
- I motivi per cui non esiste sono numerosi, culturali e politici, ormai cronici e ascrivibili a ciascuno di noi di centro sinistra a partire dai dirigenti. Prima di tutto per un diffondersi della cultura liberista per cui lo Stato non è un soggetto attivo delle dinamiche economiche ma solo un “calmieratore” dei difetti del mercato.
- Quando ho partecipato, nel 2007 al Lingotto, alla nascita del Partito Democratico ero convinto che, dopo 60 anni di contrapposizione, si stessero finalmente unificando il meglio della cultura riformista del PCI con il meglio di quella cattolica-sociale della DC. Dopo 17 anni la mia opinione è che si siano unificate solo le due peggiori culture di gestione partitocratica interna: una gestione fatta di correnti personali, poca dialettica sui contenuti (molta sulle poltrone) e di distacco dai problemi dei territori e della gente.
- E noi, la gente (i cittadini elettori, se si preferisce), abbiamo capito in ritardo o abbiamo finto di non capire che al PD (e agli altri partiti) non interessava più la partecipazione (e nemmeno il numero dei tesserati) ma solo il consenso elettorale quinquennale, indipendentemente dai problemi sociali risolti o non risolti. I social media hanno sostituito le “sezioni” e il loro lavoro.
- In questo scenario, parlare di “Campo largo” dell’alternativa di centro sinistra è un non senso se non si ri-parte dalla conoscenza del proprio campo sociale di riferimento (classista o interclassista che sia), e da una nuova partecipazione degli iscritti e degli elettori alla definizione delle politiche da adottare per aumentare il benessere generale del Paese.
- Se questo è vero, come temo purtroppo che sia, è necessario (e lo dico da iscritto) rifondare il PD prima delle prossime elezioni e prima di costruire alleanze tattiche che durano lo spazio di un mattino: ripartire dai bisogni del Paese e dalle politiche da adottare che guardino al “bene comune”: non ai bonus da elargire di volta in volta a questo e a quello.
- Certo, se la politica si è trasformata in un vuoto di rappresentanza e se il vuoto non è stato colmato da un pieno di forze sociali organizzate vorrà dire che anche le grandi organizzazioni sociali (i corpi intermedi, come si diceva) si sono allontanate dai bisogni dei loro rappresentati preferendo, le imprese, un ruolo di lobby e, i sindacati, una sorta di autorappresentazione che non produce miglioramenti del lavoro, tantomeno del Paese. Ma questo tema merita un approfondimento a sé stante.
Gaetano Sateriale