Nel centenario della marcia su Roma, il 25 aprile avrebbe dovuto assumere un significato particolare. Un momento di riflessione collettiva su ciò che ancora resta, sempre troppo, del fascismo. Un’opportunità per esaltare quei valori che le restrizioni imposte dalla pandemia hanno reso maggiormente sensibili, importanti, amati, desiderati. E invece la Festa della Liberazione si annuncia, ancor più che in passato, come un appuntamento divisivo.
Stavolta la polemica non è innescata dai nostalgici del Regime o da coloro che vorrebbero comunque sopprimere la ricorrenza, per farla confluire in un’unica e più asettica giornata nazionale, magari il 2 giugno, tipo il 4 luglio negli Stati Uniti o il 14 dello stesso mese in Francia.
No, a dar fastidio alle retrive orecchie in questa occasione non sono le note e le strofe di “Bella ciao”, comunque ancora incomprese nella loro commovente e universale potenza purificatrice, come dimostra il caso della scuola di Desio dove la Lega e Forza Italia si sono opposte a che fossero materia di insegnamento. Stolti e miopi perché questa canzone potrebbe diventare anche l’inno della resistenza ucraina.
È proprio il giudizio sulla guerra in corso ad aver alzato un tale polverone da offuscare i motivi della celebrazione. La contorta equidistanza dell’Anpi ha indotto a riformulare l’acronimo come Associazione nazionale putiniani d’Italia. Una battuta sprezzante alla quale si è aggiunto il coro di coloro che accusano di millanteria l’organizzazione, perché i veri partigiani non ci sono più, e la ritengono solo una corposa costola della sinistra più ortodossa. Ma se difendere l’eredità della lotta contro i nazisti e i loro complici in camicia nera viene considerato fuori tempo massimo, al contempo la Nato non avrebbe ragion d’esistere non essendoci più il contrapposto Patto di Varsavia. La malafede alligna ovunque.
Anche la Cgil è tacciata di pilatismo e Maurizio Landini, che sarà sul palco a Milano assieme al presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo, viene etichettato tra gli imbelli, i “né né”, quelli che non si schierano e che finiscono così per fare il gioco di Putin. Indubbi errori di comunicazione e una non chiara distinzione tra aggressori e aggrediti, hanno contribuito ad ampliare la confusione generale. L’invocazione della pace è suonata come una mancata condanna dell’occupazione russa. Un vento neomaccartista da una parte e gli imbarazzati tentennamenti dall’altra hanno mandato all’aria le carte della storia. “Il 25 aprile diventa la festa dell’invasore”, accusa il Giornale.
E così, invece che del Ventennio si parla dei cascami del comunismo. Putin, prima accettato e vezzeggiato dalla destra di tutto il mondo, ora viene dipinto come un nuovo Stalin, un erede spurio del bolscevismo, e quindi messo in conto a chiunque abbia avuto, o abbia ancora, una qualche propensione per il colore rosso.
Eppure, lo chiamano zar, evocando Ivan il Terribile e non certo Lenin e Trotskij. È un nazionalista, un oscurantista, un dittatore. Lo anima una volontà di potenza che ne fa un fascista di fatto. Un prodotto di quel fascismo eterno teorizzato da Umberto Eco.
E allora torniamo a ridare alle cose il loro vero nome. Con l’augurio che le manifestazioni di lunedì prossimo mandino un messaggio di comune speranza e di condiviso orizzonte pacifico. Nel nome della libertà, della giustizia, dell’uguaglianza, della democrazia. In ricordo di coloro che sono morti per far vivere questi princìpi.
Conforta, in tale tormento, il sorriso che durante la Via Crucis si sono scambiate Dina Franczeska Shabalina, 40 anni, ucraina, e Julia Sineva, 30 anni, russa. “Dobbiamo combattere il male che cerca di insinuarsi nel nostro cuore, di rovinarci la vita, di instillare dentro di noi l’odio e la violenza, di contaminarci con il veleno della vendetta, con la voglia di uccidere il prossimo”, spiega la prima, nata a Dnipro.
Amare il nemico, ha titolato l’Osservatore Romano.
Ma come è possibile?
Marco Cianca