Pasqualino Albi – Dottore di ricerca in diritto del lavoro
(vedi la scheda in Documentazione)
‘ (…) già a metà del secolo la maggior parte delle associazioni di categoria utilizzavano raggi piuttosto ampi, fino a dodici miglia; l’ area corrispondente era quindi molto maggiore di quella edificata presa in considerazione per le esigenze di censimento e ordine pubblico, il cui raggio era press’ appoco di sei miglia. Non più tardi del 1877, i muratori avevano portato il loro raggio a venti miglia. Nel 1865 i tipografi londinesi rivendicavano la giurisdizione su una zona con un raggio di quindici miglia, e l’ applicazione alle nuove aree dei livelli retributivi cittadini. E all’inizio del Novecento proposero di affrontare la concorrenza delle home counties (le contee intorno a Londra), istituendo una zona londinese esterna a forma di anello, limitata da due cerchi con un raggio, rispettivamente, di venticinque e quaranta miglia, in cui i livelli retributivi sarebbero stati inferiori, ma solo di poco, a quelli della Londra interna (…). Il tipico distretto londinese era quindi, almeno nel XIX secolo, quando non aveva altro fondamento che la forza contrattuale dei sindacati, più un ideale che una realtà. Era l’ area in cui le organizzazioni dei lavoratori avrebbero voluto che le retribuzioni e le condizioni di lavoro corrispondessero ad uno standard londinese, più che l’area in cui tale corrispondenza esisteva realmente.’
(ERIC. J. HOBSBAWN, Il mercato del lavoro nella Londra dell’ottocento, in ERIC. J. HOBSBAWN, Gente che lavora, Storie di operai e contadini, Rizzoli, Milano, 2001, pp. 119, 121)
1. Premessa.
Esaminando gli strumenti di programmazione negoziata del patto territoriale e del contratto d’area, è necessario mettere a confronto le scarne indicazioni giuslavoristiche (imputabili con ogni probabilità ad un percorso sperimentale tracciato a grandi linee dal legislatore: art. 2, c. 203 ss l. n. 662/1996 – delibera Cipe 21.3.1997) appena accennate in una pur imponente produzione normativa (si. v. il mio commento sub art. 2, c. 203 s.s. l. n. 662/1996, in GRANDI – PERA, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Padova, 2001, e ivi ulteriori riferimenti dottrinari), con l’esperienza applicativa fin qui compiuta, che si presenta invece ricca di contenuti.
L’esame sarà qui condotto per grandi linee (per un approfondimento, mi permetto di rinviare al mio saggio ‘La contrattazione sindacale nella programmazione per lo sviluppo’ in corso di pubblicazione su Giorn. dir. lav. rel. ind.).
Prima di procedere in questa direzione appare opportuno tratteggiare le linee ispiratrici della programmazione negoziata, al fine di individuare anche i possibili contesti in cui sembra destinata a svilupparsi nel prossimo futuro.
2. La programmazione negoziata: linee ispiratrici e nuovi contesti.
La programmazione negoziata rappresenta l’intreccio tra due importanti orientamenti che si sviluppano in Italia agli inizi degli anni novanta del Novecento: la ricerca di modalità più efficaci ed efficienti dell’azione amministrativa; la concertazione tra parti sociali e pubblici poteri come metodo di elaborazione di politiche pubbliche finalizzate a promuovere l’occupazione nelle aree svantaggiate del paese.
Il primo orientamento si manifesta nella programmazione negoziata (p.n) sotto due importanti profili: il ricorso a modelli consensuali o convenzionali, finalizzati a predisporre risposte adeguate alla complessità degli interessi pubblici e privati interessati dall’azione amministrativa; la ridefinizione, chiusa nei primi anni novanta la stagione dell’intervento straordinario nel mezzogiorno, delle politiche per il riequilibrio territoriale, in coerenza con le politiche di coesione economica e sociale promossa dall’Unione europea.
Il secondo orientamento ha il suo punto di origine nel protocollo del 3-23.7.1993 in cui possono cogliersi due principi che sembrano guidare le parti sociali: il ricorso a misure di flessibilità del lavoro nelle aree deboli deve avvenire in modo mirato; il legame tra flessibilità del lavoro e incremento dell’occupazione trova il terreno più adatto per essere coltivato nella contrattazione collettiva. Questi principi in un breve lasso di tempo si sviluppano naturalmente nella direzione segnata dall’accordo per il lavoro del 24.9.1996, che persegue obiettivi quali la promozione dell’innovazione tecnologica, della ricerca e dell’innovazione, della formazione, dell’occupazione, la realizzazione di infrastrutture e servizi alle imprese, la semplificazione delle procedure amministrative, la salvaguardia del territorio e dell’ambiente. In particolare è l’accordo per il lavoro a prevedere il contratto d’area (v. infra).
L’intreccio tra i due importanti orientamenti ora descritti è costituito dal metodo negoziale che viene posto al centro della programmazione per lo sviluppo.
Sugli orientamenti originari della programmazione negoziata si è poi innestato un profilo ulteriore, rappresentato dalla riforma della pubblica amministrazione (l. n. 59/1997, l. n. 127/1997; d.lgs n. 112/1998), orientata dal principio del decentramento amministrativo e dalla funzione di stimolo dei processi devolutivi di competenze alle autonomie locali che è esercitata dal patto sociale del 22.12.1998. In quest’ultimo accordo viene predisposta una articolazione degli accordi di concertazione sociale su due livelli: nazionale e locale. Vengono così poste le basi per un sistema ordinato e razionale di politiche di concertazione, la cui esistenza costituisce una condizione indispensabile per alimentare la programmazione negoziata.
Nel contesto fin qui descritto si inserisce ora la riforma del Titolo V della Costituzione (l. cost. 18.10.2001 n. 3), che è destinata ad incidere sull’attuale assetto della programmazione negoziata, rafforzandosi ulteriormente su questo versante il ruolo delle regioni e delle autonomie locali. Se ne trova una chiara conferma nell’accordo tra il Governo, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano, siglato il 22 novembre 2001 (G.U.R.I., serie generale, n. 19, 23.1.2002), in base al quale è stato istituito un tavolo tecnico per la verifica delle intese istituzionali di programma e per ‘la regionalizzazione della programmazione negoziata per lo sviluppo locale’, alla luce della recente riforma costituzionale.
Non è tuttavia chiaro se, nel nuovo assetto costituzionale, allo Stato rimanga comunque un compito generale di coordinamento degli strumenti di programmazione negoziata, che ha fin qui garantito, pur nell’ambito dei processi di decentramento avviati dalla legislazione ordinaria, l’adozione di canoni di uniformità nelle scelte di programmazione territoriale (si v. Corte Cost. 18.5.1999 n. 171, Foro it, 2001, I, 59).
Sotto altro profilo non può non rilevarsi che la fine delle prassi concertative degli anni novanta, annunciata dal Libro Bianco sul Mercato del lavoro in Italia (pp. 31-32), determinerebbe il venir meno di una delle condizioni che ha consentito alla programmazione negoziata di nascere e di potersi sviluppare con le caratteristiche che ha attualmente. E’ pur vero che il Libro Bianco, ritenendo necessario sottoporre a ‘valutazione critica la stagione dei patti nazionali’, auspica ‘una visione regionalista delle politiche del lavoro che coinvolga a questo livello le parti sociali’ (p. 33) e dunque la diffusione di intese concertative su scala territoriale ‘che dovranno muoversi in un contesto dinamico, fatto di utili deroghe concordate nei confronti della legislazione e contrattazione a livello nazionale’ (ibidem). Tuttavia non risulta chiaro in quale contesto dovrebbero svilupparsi gli accordi concertativi ‘territoriali’ e con quali modalità dovrebbero derogare alla legislazione e alla contrattazione nazionale. Su tale ultimo profilo si avrà modo di ritornare nel successivo paragrafo.
3. I contratti di area e i patti territoriali tra legislazione ed esperienza applicativa.
I patti territoriali e i contratti d’area sono caratterizzati, pur con differenze che qui non possono esaminarsi, dalla funzione di promuovere l’occupazione e lo sviluppo economico nelle aree svantaggiate del paese.
La legislazione sui patti territoriali e sui contratti di area valorizza il ruolo delle parti sociali; deve tuttavia registrarsi la mancanza di chiarezza sulla strumentazione giuridica idonea a supportare questo ruolo. Si tratta di una carenza dell’ordinamento già rilevata con riferimento alle discipline che devolvono all’autonomia collettiva importanti funzioni regolative ma non si fanno adeguatamente carico di sciogliere alcuni nodi irrisolti del diritto del lavoro (LISO, Autonomia collettiva e occupazione, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1998, 191 ss).
Il compito di disciplinare patti e contratti è stato demandato dalla legge alla normativa secondaria, la quale si è limitata a creare un luogo di collegamento tra parti sociali e azione amministrativa.
Un coordinamento tra autonomia collettiva e ordinamento statuale è contenuto anche nelle ipotesi di rinvio della legge all’autonomia collettiva. Nei patti e nei contratti si è però in presenza di un modello più complesso: l’autonomia collettiva non esercita un potere normativo in funzione integrativa della legge ma si muove sul terreno dell’azione amministrativa per veicolare risorse pubbliche.
Vi è tuttavia un problema comune ad entrambi i modelli: l’attuale assenza di una regolamentazione legislativa che ponga rimedio alle fragilità istituzionali dell’attuale sistema di contrattazione collettiva (cfr: TREU, L’accordo del luglio 1993: assetto contrattuale e struttura della retribuzione, in R. g. lav., 1993, I, 213 ss). Ci si riferisce ai problemi, tra di loro strettamente connessi, dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo e dell’articolazione dei livelli contrattuali. Si tratta di problemi la cui soluzione si rivela sempre più necessaria ed urgente, soprattutto ove si consideri il progressivo moltiplicarsi (si è parlato di un ‘sovraccarico’) delle funzioni esercitate dall’autonomia collettiva, che nel contratto di area (e nel patto territoriale) trova una delle espressioni più recenti.
L’esigenza di una regolamentazione legislativa di tali delicati temi si avverte con forza ancora maggiore se si pensa alla disciplina di patti e contratti. L’apertura che questa legislazione opera verso l’autonomia collettiva può tradursi in un vero e proprio vuoto: assenza di criteri di individuazione dei soggetti sindacali legittimati a stipulare gli accordi (intesa tra le parti sociali nel contratto d’area, eventuali accordi nel patto territoriale); assenza di criteri in grado di individuare a quale livello (nazionale, locale/aziendale) si collochino tali accordi; assenza di criteri in grado di definire la trama di rapporti tra fonte legale e fonte negoziale, profondamente diversa rispetto a quella ‘classica’ del rinvio della legge all’autonomia collettiva. La disciplina di patti e contratti rivela in particolare una sostanziale indifferenza rispetto ai soggetti sindacali e ai contenuti degli accordi. Al riguardo bisogna chiedersi cosa si verificherebbe, ad esempio, se, nell’ambito di patti e contratti, cominciassero ad affermarsi quelle dinamiche negoziali che si stanno manifestando alla periferia del sistema delle relazioni industriali: se, in sostanza, sulla scena cominciassero ad affacciarsi soggetti sindacali non ‘autentici’. Complessi interrogativi finisce per porre inoltre la possibile rottura del fronte interno dei tradizionali attori del sistema di relazioni industriali (come verificatosi ad esempio nel caso di Gioia Tauro).
L’esame della concreta esperienza applicativa fin qui compiuta ha messo in evidenza che l’autonomia collettiva ha svolto un ruolo determinante nella promozione e nello sviluppo di tali strumenti.
Deve rilevarsi che nell’ambito dei patti territoriali gli impegni assunti dalle parti sociali hanno soprattutto carattere programmatico, mentre nei contratti d’area prevalgono impegni caratterizzati da un maggior contenuto regolativo (si v. la scheda di documentazione Le intese tra le parti sociali dei contratti d’area).
Le soluzioni predisposte dalle parti sociali appaiono dotate di un significativo grado di stabilità e si sono sviluppate secondo una dinamica sostanzialmente governata da soggetti sindacali che, pur riconoscendosi negli assetti contrattuali predisposti dal protocollo del luglio 1993, hanno fissato, con riferimento ad una situazione specifica, non ancora regolata da altre fonti convenzionali, le coordinate delle attività negoziali svolte a livello locale.
La disciplina di patti e contratti e la sua attuale esperienza applicativa non possono essere osservate senza trascurare quel complesso e mutevole scenario composto da frammenti sparsi di contrattazione territoriale e di federalismo contrattuale, di cui si conoscono in realtà ancora pochi dettagli (v. B. CARUSO, Gli esiti della globalizzazione: disintegrazione o trasformazione del diritto del lavoro?, in S. SCARPONI (a cura di), Globalizzazione e diritto del lavoro, Padova, 2001, 207 ss; A. VISCOMI, Modelli normativi e prassi contrattuali nei mercati del lavoro locali, in DML, 2001). A mio parere non vi é dubbio che la risposta ai nuovi complessi interrogativi posti dai mutamenti in atto passa necessariamente attraverso l’attualizzazione della ‘portata precettiva’ dell’art. 39 Cost. (v. L. ZOPPOLI, Il contratto collettivo con funzione normativa nel sistema delle fonti, Bozza provvisoria del Rapporto finale per la sessione speciale su ‘l contratto collettivo’ Giornate di Studio A.I.D.LA.S.S. ‘Il sistema delle fonti nel diritto del lavoro’, Baia delle Zagare, 25-26 maggio 2001, in Diritto del lavoro on line – www.unicz.it/lavoro), per definire criteri di uniformità in base ai quali la contrattazione territoriale possa svilupparsi, senza alimentare deprecabili fenomeni di concorrenza al ribasso e di alterazione dell’equivalenza delle condizioni di vita nel territorio nazionale (cfr: GHEZZI, Le riforme costituzionali e il diritto del lavoro: la Bicamerale è ibernata ma i problemi restano, in Studi sul lavoro. Scritti in onore di Gino Giugni, Bari, 1999; MAZZOTTA, Il diritto del lavoro e le sue fonti, in Riv. it. dir. lav., 2001, I, 219 ss).
E’ chiaro che fenomeni del genere, in sé inaccettabili, tradiscono il senso stesso di patti e contratti che, in coerenza con le politiche di coesione economica e sociale promosse dall’UE, hanno la funzione di ridurre (e non di alimentare) le differenze tra i livelli di sviluppo delle varie regioni e il ritardo delle regioni meno favorite.
Su questo versante non possono non suscitare dubbi e perplessità le proposte di un maggiore decentramento della struttura contrattuale formulate nel Libro Bianco sul Mercato del lavoro in Italia (pp. 82 ss).
Deve charirsi che appare condivisibile la sottolineata esigenza di una maggiore flessibilità del sistema contrattuale. Si tratta di una esigenza che era stata messa in luce anche dalla Relazione finale della Commissione per la verifica del Protocollo del 23.7.1993, Presidente: G. GIUGNI, (23.12.1997, in R. g. lav., 1998, 571). Tuttavia nella citata Relazione emerge con chiarezza la piena consapevolezza che la maggiore flessibilità della contrattazione decentrata può essere realizzata solo in un sistema che preveda chiare regole di coordinamento tra livelli contrattuali e che risolva il problema dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi. Non a caso la Relazione ha auspicato: a) un intervento legislativo ‘sussidiario e recettizio delle regole endogene al sistema di relazioni industriali, così da importare all’interno dell’ordinamento statuale gli effetti previsti nell’ordinamento autonomo alle condizioni previste dalla medesima fonte’;
b) un ‘opportuno intervento legislativo di sostegno’ per risolvere ‘la questione dell’efficacia erga omnes dei contratti’.
Deve invece rilevarsi che nel Libro Bianco la proposta di maggior decentramento del sistema contrattuale non si coniuga in alcun modo con una presa d’atto della imprescindibile esigenza di porre rimedio alle fragilità istituzionali del sistema della contrattazione collettiva italiana. Al contrario, il Libro Bianco dichiara di non volere assumere iniziative legislative in materia di rappresentatività degli attori negoziali (p. 83). Gli effetti di questa impostazione sono già visibili nel d.d.l. A.S. 848 (‘Delega’ al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro) che contiene numerosi rinvii ai contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente rappresentative su scala nazionale o locale.
Il quadro che va componendosi sembra esprimere una sorta di indifferenza regolativa tra contratto nazionale e contratto locale che deve essere esaminata insieme con la lettura del nuovo art. 117 Cost. che lo stesso Libro Bianco accoglie: ‘L’intera disciplina del lavoro dipendente ed autonomo, unitamente ai profili previdenziali che non ricadono nell’ambito del sistema pubblicistico, in questa ipotesi verrebbe attribuita alle Regioni alle quali, come ancora recita lo stesso art. 117 Cost, spetta ‘la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato’ (p. 28). Si tratta di una lettura niente affatto pacifica e che suscita non poche perplessità in dottrina (cfr: CARINCI, Osservazioni sul titolo V della Costituzione. La materia del lavoro, in Italian Labour Law e-Journal – www.labourlawjournal.it; RUSCIANO, A proposito del ‘Libro Bianco sul Mercato del lavoro in Italia’ in Diritto del lavoro on line – www.unicz/lavoro.it; ZOPPOLI, La riforma del Titolo V della Costituzione e la regolazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni: come ricomporre i ‘pezzi’di un puzzle?, ibidem), soprattutto perché rischia di intaccare i principi fondamentali della Repubblica (ZOPPOLI, La riforma cit., 4).
Una simile lettura dell’art. 117 Cost. porta con sé il pericolo di frammentazione e di polverizzazione degli assetti della contrattazione collettiva e dunque anche dell’esperienza applicativa di patti territoriali e contratti d’area.