Da più parti la pandemia da Covid-19 che ha travolto le nostre vite è stata indicata come un imponente laboratorio di sperimentazione per la ridefinizione degli assetti sociali, in cui il divario tra vincitori e vinti si è fatto sempre più profondo. Un divario che il World Economic Forum ha misurato in tempo: secondo le stime del Global Gender Gap Report, infatti, in Italia occorrerebbero 132 anni per colmare il divario che sussiste tra uomini e donne – vincitori e vinti, appunto -; un divario misurabile attraverso un indice che si basa sui parametri di salute, educazione, economia e politica. E nella classifica internazionale a 146 Paesi, il Bel Paese fa male: sessantatreesima nel mondo, subito dopo Uganda e Zambia e appena prima della Tanzania, mentre nella competizione europea si piazza a quarantasei posizioni dalla Spagna, quarantotto dalla Francia e cinquantatré dalla Germania.
Alla fine del 2021, secondo i dati elaborati da Ranstad, il 40% delle donne fra i 35 e i 44 anni non lavorano, contro il 15% degli uomini, per dedicarsi unicamente a casa e famiglia. La differenza fra tasso di inattività maschile e femminile in Italia è del 23,2%, contro il 12% europeo e percentuali inferiori al 10% in Francia, Germania e Spagna. In Italia, su 8,6 milioni di occupate tra i 30 e i 69 anni, 2,8 milioni, ovvero il 32,6% lavora part-time. Quasi tre occupati part-time su quattro sono donne. Perché? Sul totale delle donne che non lavorano a tempo pieno, il 16% dichiara di lavorare part-time per prendersi cura dei figli, di bambini e/o di altre persone non autosufficienti. Semplificando la teorizzazione ben più complessa della filosofa Silvia Federici, la casa, in questo modo, diventa una vera e propria enclosure, un recinto coatto.
Il governo ci vuole sempre più madri e le nuove misure adottate – o proclamate – (“Opzione donna”, per cui – semplificando – più figli fai, meno lavori/prima vai in pensione; lifting all’assegno unico e ai congedi parentali – ma sempre e solo per la madre) sembrano un tentativo volto a tamponare l’emorragia demografica più che a migliorare il posizionamento delle donne/lavoratrici nel mercato del lavoro. In più, attraverso oggettive limitazioni al diritto all’aborto, alleanze con i pro-vita che ci ricordano che il cuore di Michelino, l’emblematico feto parlante mascotte di una campagna di “sensibilizzazione” risalente nemmeno a troppi anni fa, batte nonostante le streghe cattive che vogliono disfarsene per puro sadismo, non fanno altro che rimarcare una posizione di puro patriarcato.
Ma a che prezzo? La divisione tra produzione e riproduzione, nonostante gli oggettivi passi avanti compiuti dagli anni Settanta a oggi in materia di accesso al mondo salariato da parte delle donne, resta netta, cui corrisponde la netta e corrispettiva divisione tra uomini e donne: gender gap pay, mortificazione dei contratti, inefficienza dei servizi pubblici di cura (asili nido, babysitting, infermieristica per familiari non autosufficienti come anziani e disabili), inaccessibilità dei servizi privati. In questo modo l’alternativa alla regressione allo stato di casalinga della donna, che per inclinazione biologica (sic!) è deputata a questo tipo di mansioni – lavoro domestico, lavoro riproduttivo, lavoro di cura -, è forzata e l’alternativa è accettare qualsiasi condizione contrattuale pena l’esclusione dal mercato del lavoro e la totale dipendenza salariale e psicologica dal coniuge forza-lavoro.
La non retribuzione della casalinga, che esce (costretta) dall’enclosure dello spazio domestico per contribuire al sostentamento del familiare, attiva una catena di servizi (due volte) essenziali al corretto funzionamento della struttura nucleare della famiglia. Laddove vengono meno i processi di socializzazione e collettivizzazione di quei servizi necessari (asili nido, scuole, trasporti pubblici, salute), il capitalismo costringe la salarizzazione della famiglia, lasciando i fragili a sé stessi e costringendo di fatto le donne a scelte e sacrifici non rimandabili . A ben donde questa può essere considerata una violenza perpetrata dalla politica economica e sociale e dalla commercializzazione della riproduzione, una doppia povertà derivante dai tagli nei servizi sociali, occupazionali e assistenziali. Un processo definibile di “femminilizzazione della povertà”.
Elettra Raffaela Melucci