L’intervento di Bentivogli sul Sole 24 Ore del 4 luglio scorso coglie un punto essenziale di un dibattito che ha sempre attraversato gli economisti e, di riflesso, le relazioni industriali e la politica: come affrontare i nodi di un sistema che, con un incentivo forte dato anche dalla crisi, ha quasi sempre risolto il tema della bassa produttività intensificando l’out put di lavoro, agendo su bassi salari e premialità ad personam fuori da progetti complessivi.
Ovviamente il tema della produttività “di sistema” non nasce oggi, con la rivoluzione tecnologica nota come Industria 4.0, ma è certo che oggi, come un fascio di luce, le tante potenzialità tecnologiche illuminano meglio gli spazi oscuri.
Da un lato vi è un tema di produttività esterna all’impresa o alla rete di imprese che la nuova tecnologia rende più veloce, adattativa ed intercambiabile: un tema cioè di politiche pubbliche in relazione all’ecosistema (infrastrutture materiali ed immateriali, formazione, qualità delle pubbliche amministrazioni, del sistema giudiziario e fiscale; tutti temi che compaiono ai primi posti nelle indagini internazionali sui fattori di attrazione degli investimenti privati esteri).
Dall’altra vi è il contributo possibile dei lavoratori che, su questo concordo con Bentivogli, devono essere messi nelle condizioni (e per primi devono accettare culturalmente questa sfida) di poter concorrere non solo con la “quantità e flessibilità” della loro prestazione, ma anche con i loro saperi, professionalità, capacità di adattarsi (perché resi protagonisti consapevoli) alle riorganizzazioni/trasformazioni delle loro imprese.
Ma qui ci si scontra con il sistema produttivo reale e anche con una certa cultura delle relazioni sindacali: il metalmeccanico è un’eccezione. Perché nessun settore ha il 37% delle aziende con un secondo livello di contrattazione ne tanto meno copre il 70% dei lavoratori. E fin tanto che non si amplia la contrattazione di secondo livello, fin tanto che non si individuano sedi e dimensioni (anche tramite un bilateralismo nuovo) dove chiamare su obiettivi condivisi di innovazione, formazione, adattamento, crescita, partecipazione, i milioni di lavoratori in imprese con meno di 15 dipendenti, non si può rinunciare a quella che tanto Sylos Labini che lo stesso Tarentelli, chiamavano “frusta salariale”. Intesa come sostegno alla domanda interna e di riflesso alla domanda aggregata (attraverso anche il prelievo fiscale progressivo), ma anche come stimolo alla specializzazione di impresa, all’investimento in tecnologie ed innovazioni di prodotto e processo.
Da ciò deriva la doppia funzione salariale dei CCNL, cui conseguenza è l’effetto di incentivare pratiche di neocentralizzazione contrattuale che vogliono dire anche meno capacità adattive delle declaratorie professionali, meno sperimentazioni su orari ed organizzazione del lavoro e, quindi, mano libera nelle imprese per una meritocrazia spesso “solipsistica”, sganciata da quel progetto comune e condiviso che avrebbe anche migliori effetti (in termini di efficienza e risultati aziendali) se invece fosse frutto di un processo condiviso, coordinato e codificato. Ed è chiaro che così si rischia anche di incentivare la parte più “conservatrice” di una certa Confindustria che non coglie (o finge di non cogliere) che alla lunga tutto ciò ci potrebbe portare ad un impoverimento generale dell’attuale modello/non modello di relazioni.
Ma se tutto ciò è vero serve allora una soluzione coraggiosa, di “rottura”.
Avanzo una proposta pratica, che guarda alla dimensione territoriale, ma anche di filiera (“va dove ti porta la produzione di valore”, per parafrase una nota citazione, guardando al fatto che le tecnologie sempre di più dilatano la dimensione territoriale) dove incardinare un secondo livello, alternativo e non aggiuntivo a quello aziendale: fissiamo elementi di garanzia retributiva corposi nei CCNL (per esempio 1000 euro l’anno) che se non si fa contrattazione aziendale o territoriale o di filiera, vanno direttamente sui nuovi minimi contrattuali valendo poi a tutti i fini previdenziali, di tfr, ecc.
Leghiamoli ad obiettivi di aumento della produttività (la c.d. produttività programmata) identificati a monte (e ovviamente modificabili/migliorabili se si fa contrattazione di 2° livello).
Costruiamo modelli tipo di contratti territoriali o di filiera, a disposizione delle parti sociali a livello territoriale e poi scommettiamo su quella parte di imprenditorialità che non ha paura di investire su partecipazione e confronto (e che nel caso, godrebbe anche degli incentivi fiscali per la contrattazione di 2° livello, recuperandone lo spirito originario, quello appunto di estendere la contrattazione, non di ridurre il costo a chi la faceva già prima).
Così potremmo tenere insieme una funzione pura dei CCNL a garanzia “solo” di potere di acquisto e di una funzione anti dumping (il CCNL serve anche a questo, soprattutto viste le caratteristiche del nostro sistema di impresa), oltre che di cornice generale su diritti, doveri, formazione, procedure, con la reale volontà di aggredire il tema della bassa produttività, facendo delle relazioni industriali una risorsa, più vicina possibile a dove la produttività potrà essere generata, e non un vecchio arnese.