di Vincenzo Bavaro
1. Il principio maggioritario tra consenso e dissenso
«Il principio maggioritario non ha in sé la sua ragion d’essere; la può acquistare o non, a seconda del dove e del come lo si applica»; così scriveva Edoardo Ruffini nel 1927 in uno studio sul principio maggioritario, aggiungendo, poi, che le diverse forme con le quali questo principio si manifesta riflettono i diversi approcci al dissenso.
Anche nel diritto (inter)sindacale, il principio di maggioranza è funzionale a governare il dissenso. Questo principio, essendo uno strumento di misurazione del consenso espresso su più soggetti o opzioni, presuppone il pluralismo; e questo è un primo punto. Così facendo, il principio maggioritario è uno strumento per rafforzare il consenso. Al contempo, però, il principio di maggioranza, applicando l’algida legge del numero, potrebbe anche essere uno strumento per indebolire il dissenso. Ebbene, è fra queste due prospettive divergenti (rafforzamento del consenso o cooptazione del dissenso) che possiamo analizzare il principio maggioritario nel diritto (inter)sindacale.
Distinguiamo il «principio maggioritario funzionale» dal «principio maggioritario deliberativo». Chiamo «maggioranza funzionale» la tecnica che misura il consenso sul soggetto; chiamo invece «maggioranza deliberativa» la tecnica che misura il consenso sull’atto deliberato. Sono due profili che occorre tenere distinti, anche perché ci permettono di inquadrare meglio anche alcuni precetti normativi: penso all’art. 8, legge n. 148/2011 o ai recenti Accordi interconfederali del 2013 nei quali la rappresentatività maggioritaria del sindacato (maggioranza funzionale) è cosa diversa dalla «maggioranza» necessaria ad approvare un contratto collettivo (maggioranza deliberativa).
2. Principio maggioritario “funzionale”
Riguardi alla maggioranza funzionale, mi sembra di poter dire che la rappresentatività maggioritaria non dipende tanto dalla misurazione “numerica” del consenso quanto da indici che rimandano alla creazione sociale del suo significato normativo: visto che, il «sindacato comparativamente più rappresentativo» legittimato a sottoscrivere contratti, ex art. 8 è presupposto alla “maggioranza” che poi li deve convalidare, dobbiamo desumere che il primo si configuri diversamente dalla seconda.
Il principio maggioritario così declinato distingue il sindacato maggioritario dal sindacato «minoritario» con effetti sulle prerogative e sul funzionamento del sistema di rappresentanza (perciò, lo qualifichiamo “funzionale”): per esempio, al sindacato maggioritario si attribuisce la potestà normativa devoluta dalla legge, oppure il diritto di costituire r.s.a; al sindacato “minoritario”, no. Quindi, il principio maggioritario “funzionale” determina l’esclusione del sindacato minoritario dal sistema di rappresentanza.
3. Principio proporzionale “funzionale”
Quando però il soggetto non viene più selezionato in tal modo ma attraverso la misura numerica del consenso, applichiamo un principio opposto a quello maggioritario: il principio proporzionale. Infatti, è il numero (dei voti) ottenuti alle elezioni delle RSU che indica il consenso sui sindacati provocando, però – ecco la differenza – una inclusione anche del sindacato minoritario nel sistema della rappresentanza. Con l’elezione della RSU, i voti servono a stabilire chi ha maggior consenso; ma anche chi ne ha di meno può avere rappresentanza; e lo stesso dicasi per la rappresentatività nazionale, almeno secondo gli accordi del 2013, seppur sopra il 5%.
Possiamo intanto dire che, a differenza del principio maggioritario, il principio proporzionale funzionale, includendo tutti i soggetti, svolge una più efficace funzione irenica del conflitto intersindacale generatosi nel pluralismo.
4. Principio maggioritario “deliberativo”
E comunque, se anche il principio proporzionale configura il Soggetto, è il principio maggioritario a regolare la sua volontà: «la costituzione di rappresentanze fondate sul meccanismo elettivo/universale non può non comportare il parallelo riconoscimento del principio maggioritario come metodo di assunzione delle decisioni all’interno delle stesse rappresentanze». Ai sensi dell’AI 2011, la RSU delibera «a maggioranza»; e se in azienda ci fossero r.s.a., la deliberazione avviene a maggioranza delle deleghe. Così anche per gli Accordi del 2013: deliberazione della piattaforma a maggioranza della rappresentanza; a maggioranza dei lavoratori, il contratto.
Il “pluralismo proporzionale”, provoca anche un secondo effetto: attribuendo la funzione deliberativa alla maggioranza, si istituzionalizza l’unitarietà della rappresentanza: “unitarietà formale”, come nelle RSU, ma anche “unitarietà sostanziale” derivata, appunto, dalla procedura deliberativa a maggioranza. Infatti, se da questa deliberazione deriva un vincolo per tutti i deliberanti (maggioranza e minoranza) allora è la procedura deliberativa medesima a istituire l’unitarietà del soggetto deliberante. Un processo di istituzionalizzazione della rappresentanza sindacale che si realizza attraverso la procedura deliberativa a maggioranza.
5. Principio maggioritario “deliberativo” e governo del conflitto
Questo dispositivo vincolante – di per sé – non implica necessariamente la maggiore rappresentatività del sindacato; tant’è vero, che per l’art. 39 Cost. 4° comma, l’efficacia del contratto non dipende dalla rappresentatività dei soggetti (solo i sindacati registrati, non tutti) ma dalla procedura deliberativa a maggioranza (desumibile dalla proporzionalità della rappresentanza). Ma in questa prospettiva, la “Maggioranza” non è più solo una regola di governo del conflitto intersindacale (cioè del rapporto fra Sindacati), ma è anche (e direi soprattutto) una regola di governo del conflitto collettivo (cioè del rapporto fra Sindacato e Imprese). In questo modo, la “maggioranza” coopta la minoranza, risolvendo così il conflitto fra Minoranza e Imprese. Quindi, ciò che ho prima qualificato «dispositivo di governo del conflitto intersindacale» è, a ben vedere, un «dispositivo di governo del conflitto collettivo». Perciò, trattare dell’efficacia del contratto collettivo “maggioritario” significa trattare della democrazia sindacale e del conflitto collettivo.
6. Principio maggioritario deliberativo e democrazia diretta
Quindi, ecco confermato che il principio maggioritario pone la questione del modello di democrazia sindacale cui applicarlo. Ponendoci due nuove – ma in realtà vecchie – questioni: la democrazia e il dissenso.
Sulla prima questione: maggioranza nella democrazia rappresentativa o nella democrazia diretta? Maggioranza dei sindacati, dei rappresentanti sindacali, degli iscritti o dei lavoratori?
La dimensione dell’ambito in cui si delibera è decisiva: sia il numero di persone che fanno parte di un insieme politico sia l’estensione del suo territorio influiscono sulle forme della democrazia; di conseguenza più la dimensione è piccola più la partecipazione diretta garantisce la democrazia. In questa prospettiva, il referendum è lo strumento procedurale più efficace per radicare il principio di maggioranza nel cuore della comunità dei lavoratori e per scongiurare il rischio di una incontrollabile atomizzazione degli interessi e delle loro forme di rappresentanza. In coerenza a ciò la procedura prevista dagli accordi del 2013 prevede la consultazione fra i lavoratori come condizione essenziale di validità degli accordi nazionali.
E comunque, visto che non a caso nei sistemi contrattuali dov’è prevalente il livello aziendale, il referendum sul contratto è l’ordinario strumento di deliberazione. C’è dunque da chiedersi se, nell’aziendalizzazione del sistema contrattuale, non sia necessaria la partecipazione diretta dei lavoratori al processo deliberativo.
7. Conclusione
Infine la seconda questione: un problema che pone la “legge del numero” è l’individuazione del soggetto deliberante; non tanto per definire chi è “maggioranza” ma per definire di chi è maggioranza. Per affidarsi al voto, occorre omogeneità del gruppo d’interesse; diversamente, occorrerebbe almeno che la tecnica di misura del consenso tenga conto delle peculiarità e degli interessi in gioco che spesso fanno confliggere i gruppi di interesse. Che si tratti di referendum sul contratto o di elezione della rappresentanza, occorre delimitare correttamente l’ambito di misurazione.
Anche e soprattutto perché, come scrisse Gianni Garofalo, «la democrazia sindacale… non è riducibile soltanto a un suo corollario tecnico, quale il principio di maggioranza di voti, di associati, di sigle…» ma richiede la capacità di mediazione del sindacato. In tal senso, finanche il modello di democrazia diretta, seppur più efficace nel rappresentare la volontà democratica, non sfugge alla critica della “legge del numero”.
Aristotele, nella Politica, scrive che «il giusto in senso democratico consiste nell’avere uguaglianza in rapporto al numero e non al merito, ed essendo questo il concetto di giusto, di necessità la massa è sovrana e quel che i più decidono ha valore di fine ed è questo il giusto». Come a dire che nella democrazia, il “giusto” deriverebbe dal numero e non «dal merito». Però se il «numero» è il giusto come razionalità procedurale, il «merito» è altrettanto giusto come razionalità materiale del dissenso e del conflitto; almeno fino a che resiste la legalità costituzionale.