di Marco Bentivogli
La vicenda Electrolux non è diversa da molte altre, potrei elencare quantità di situazioni simili. La vertenza è balzata agli onori della cronaca perché azienda e l’associazione industriali di Pordenone hanno formalizzato una proposta. Per citarne una a caso che seguo direttamente, l’Alcoa, ha deciso di chiudere con una e-mail il 7 gennaio di 2 anni fa, senza se e senza ma.Non solo senza fare proposte ma rifiutando tutte quelle da noi costruite.
Lo scandalo suscitato nell’opinione pubblica, è stato chiedere di ridurre i salari, già molto bassi nel lavoro industriale e tra i più bassi d’Europa. Si sono utilizzati i termini comparativi con le aziende polacche, dove moltissimi produttori, prima localizzati in Italia, sono andati a produrre.
La produzione di elettrodomestici è molto povera come contributo tecnologico e di capitale; un vecchio industriale, Dalle Molle, diceva: “un frigorifero è una scatola in cui fuori fa caldo e dentro fa freddo”. Poco cambia per le lavatrici, pertanto accanto ad un po’ di elettronica e domani di domotica, il lavoro è su catene di montaggio ancora molto fordiste e dove i tempi di saturazione individuali sono molto bassi.
Molti hanno delocalizzato in quei paesi senza offrire alternative. Sono partiti e messo i lavoratori in mobilità. Comunque la si pensi, solo Fiat ha fatto il contrario, ovvero ha spostato una produzione dalla Polonia in Italia, quella della Panda. E questo grazie a un sindacato, come il nostro, che sapeva la prima regola del sindacalista: mai dare un alibi a buon mercato alle aziende per chiudere e andarsene!
È un ricatto, forse si ma il prezzo di chiudere la porta è ancora più salato. E la contrattazione serve a sfidare le aziende a carte scoperte. Forse Electrolux ha già deciso di andar via comunque. E il taglio di salari, per l’incidenza che hanno i salari negli indicatori di competitività (ad es. il Clup) sembrerebbe confermare questa tesi anche perché spesso il costo del lavoro è meno del 10% dei costi dei diversi fattori.
Ma un buon sindacalista apre la trattative e mette tutte le carte in tavola. Il tanto decantato sindacato tedesco e quello americano hanno tagliato temporaneamente i salari, in cambio hanno ottenuto investimenti e stabilità occupazionale per alcuni anni. Nessuno gli ha detto che hanno accettato ricatti.
A parte l’azienda in questione, qualche ragione le imprese serie l’hanno:
– l’Energia costa il 40% in media più che in Germania
– lo Stato paga le imprese in media dopo 170 giorni (45 in Europa)
– infrastrutture materiali e immateriali costose e spesso assenti
– burocrazia e scarsa digitalizzazione
– scarso sostegno a innovazione e ricerca
– difficoltà approvvigionamento materie prime
Noi dobbiamo spingere tutto il vecchio, logoro e frantumato “sistema paese” a chiedersi non perché vanno via, ma a dare buone e concrete motivazioni per restare e magari ad arrivare a investire.
La politica dovrebbe coralmente tacere perché doveva dare risposte su questi punti.
Non mi considero un moderato (parola abusata ed equivoca in Italia), ma non ho mai esitato a trattare in molte aziende su turnistiche e su altre condizioni impegnative, in cambio di investimenti.
Credo che se Electrolux ha deciso di andar via, noi non dovremmo dargli alibi. Le condizioni salariali lo sono e per questo è il caso di sfidarli.
Qualche mio amico ha osservato che, certo, ci vuole un limite, in cui le trattative devono fermarsi.
Vero, si campa male con un salario di un metalmeccanico, con 1/3 in meno è difficilissimo.
Ma per me il limite è la fabbrica chiusa, quando arrivi li, come organizzatore sindacale la partita non la riapre più nessuno, e quando vai a cercare i duri e puri col culo al caldo che ti dicevano: “Niente negoziato, proposta irricevibile”, sei solo con i tuoi lavoratori che non sono più tali perché disoccupati. Le trattative puntano invece a riaprire le partite, a volte solo a prendere tempo, a sciogliere nodi, a responsabilizzare tutti per trovare le soluzioni. Può sembrare poco, a volte anche avere più tempo è già molto. Per questo le deroghe ai contratti nella nostra impostazione sono specifiche e temporanee.
I No sono molto comodi per un sindacalista: ci si mette a posto la coscienza, ma si lasciano i lavoratori di fronte al loro destino e nelle mani di un’azienda che al massimo monetizzerà la loro perdita di lavoro.
Un sindacalista fa un lavoro durissimo, perché sa di prendersi responsabilità non sue, e non può solo indignarsi, deve portare fuori dal guado della disperazione le persone. Per questo non sopporto i giornalisti miliardari, propagatori di indignazione televisiva, che esauriscono in se stessi la necessità di cambiamento e le risposte che le persone in difficoltà non possono aspettare .E infatti questi giornalisti, sono tutti o quasi provenienti, come diceva Gaber, da quella generazione che ” ha visto trasformarsi i sogni in parodie, le parole d’ordine in luoghi comuni, la speranza di cambiamento in demagogia” e per questo amano i sindacalisti radicali, simbolici e innocui e i lavoratori solo se senza speranza.
Noi non potremo mai accodarci alla rassegnazione, la strada della contrattazione vera è sempre stretta e in salita, ma se c’è anche solo una possibilità di salvare il lavoro va percorsa.