La crisi che si è aperta nel 2008 non è una crisi come le altre. L’ennesima conferma viene dalla difficoltà di capire quale economia uscirà dalla crisi. I segnali che arrivano dai paesi in cui la ripresa, bene o male, è in corso sono confusi, spesso contradditori: come se qualcosa stesse bollendo sotto la coltre gelata della recessione, ma non si capisse ancora cosa. La novità già evidente e più vistosa è che si è rotto lo stantuffo che ha mosso l’economia mondiale fino al 2008: i cinesi producevano e gli americani consumavano. Non è più così: gli americani consumano meno e la Cinaha smesso di essere la fabbrica mondiale. E’ avvenuto quello che molti prevedevano come inevitabile, ma non arrivava mai: l’aumento dei salari cinesi. Il New York Times riferisce che, quando Airtex, una fabbrica tessile, sbarcò in Cina, tredici anni fa, pagava un operaio 3 dollari l’ora. Ora le costa 11,80 dollari. Di fatto è quello che guadagna un operaio americano, anche se, nel caso americano, la busta paga può arrivare, tutto compreso, fino a 23 dollari. Ma dall’altra parte, perla Cina, bisogna aggiungere i costi del trasporto attraverso l’oceano e la scarsa flessibilità della produzione, nell’era delle scorte “just in time”.
Il risultato è il rientro in massa di fabbriche dalla Cina all’America, dove, però, i lavoratori di una volta non ci sono più e trovarli diventa difficile. Così, nell’industria dell’abbigliamento, nonna di tutte le altre, i salari sono cresciuti, fra il 2007 e il 2012, del 13,2 per cento, cioè dieci volte l’aumento medio registrato in tutto il settore privato dell’economia. Non solo, in una ripresa del mercato del lavoro complessivamente ancora timida ed esitante, un settore quasi antidiluviano come l’abbigliamento è uno dei pochi in cui la caccia al lavoratore, anziché al posto di lavoro, sia affannosa e le aziende si ingegnano a metter su corsi di formazione, per insegnare come usare una macchina da cucire.
E’ una indicazione in controtendenza, ma non è l’unica. Di solito, quando un’economia esce dalla recessione e decolla la ripresa, l’economia sembra ribollire di energia, di iniziative, di scommesse. Invece, non è così: l’economia americana sembra un meccanismo arrugginito, inceppato, semicongelato. Dennis Lockhart, uno dei pezzi grossi della Federal Reserve, nota che “rispetto al passato, meno aziende si espandono e ogni azienda che si espande assume meno lavoratori di quanto ci si aspetterebbe”. “Ma ci sono anche – aggiunge subito – meno aziende che si restringono e ognuna si restringe meno di quanto, mediamente, sarebbe avvenuto in passato. Meno persone vengono licenziate o lasciano il loro posto e le aziende assumono meno persone”.
L’aspetto più inquietante di questa scarsa reattività emerge, quando si guarda dove le aziende spendono i loro soldi (i profitti, in effetti, sono già ripartiti). Anche qui, in base al codice della ripresa, ci si aspetterebbe che puntassero con coraggio su nuovi prodotti, nuove invenzioni, nuovi processi produttivi per cavalcare la ripresa e farla andare sempre più veloce. Invece, no. Il passo della Ricerca&Sviluppo – storicamente il fiore all’occhiello dell’economia americana – sta rallentando, sottolinea uno studio della Federal Reserve di Atlanta. Fra alti e bassi, mediamente, la spesa per R&D è cresciuta, negli ultimi 50 anni, del 4,6 per cento l’anno. Ma, negli ultimi 5, solo dell’1,1 per cento. E, di questi, il 2012-2013, già fuori dalla recessione, non hanno mostrato nessuna accelerazione.
In poche parole, l’economia storicamente più dinamica al mondo rallenta gli sforzi per l’innovazione, congela la catarsi della distruzione creativa dell’industria e, dove si muove, come nel tessile, è perché guarda indietro. Non sono segnali incoraggianti.
Maurizio Ricci