Fra le molte considerazioni che si possono svolgere sull’evoluzione delle relazioni industriali in Italia ce n’è una confermata dalla firma da parte di Confindustria, Cgil, Cisl e Uil del Testo Unico sulla Rappresentanza, del 10 gennaio 2014, (da ora TU 2014): nei periodi in cui il sistema intersindacale è in crisi, la contrattazione interconfederale è il motore principale di quel sistema. Perché di fronte alla crisi, un sistema richiede nuove norme generali di funzionamento. Anche per questo il TU 2014 rinvia poche materie alla contrattazione nazionale di categoria (elettorato attivo e passivo, definizione delle piattaforme); anzi, a ben vedere – rispetto agli accordi precedenti – in questo modo è stato fugato il rischio di regole, su rappresentanza e contratto collettivo, diverse per categorie. È come se il TU 2014 ambisca a essere una vera e propria bozza di un testo legislativo (almeno così emerge da un documento della Cgil) per quando (e se) il quadro politico-istituzionale consentirà di adottare una legge su queste materie.
Nel frattempo, il TU 2014 chiude un trittico contrattuale, richiamato più volte nel testo, che va dall’accordo del 28 giugno 2011 al protocollo del 2013 e costituisce ormai il nuovo architrave del diritto intersindacale italiano, non a caso definito proprio come Testo Unico (cfr. già A. Maresca, Il contratto collettivo nazionale di categoria dopo il Protocollo d’intesa 31 maggio 2013, in Riv. It. Dir. Lav., 2013, I, p. 707 ss.). Un riformato diritto intersindacale che seleziona i soggetti maggiormente rappresentativi per la contrattazione nazionale attraverso il “calcolo numerico” (rispetto al “profilo politico-sociale”); che disciplina l’efficacia del contratto collettivo attraverso il “principio di maggioranza” (rispetto al principio “libero-volontaristico”); che – per conseguenza – disciplina il conflitto collettivo attraverso il “vincolo contrattuale” (rispetto all’intangibilità del diritto di sciopero).
Un diritto intersindacale del suo tempo, cioè il tempo in cui il paradigma è l’aziendalizzazione del sistema di regole sul lavoro. Vero è che il TU 2014 pone regole per la contrattazione nazionale; ma ciò non contrasta con l’aziendalizzazione atteso che dove non c’è contrattazione aziendale occorre pur sempre avere una disciplina contrattuale. Il TU 2014, però, conferma il sistema della contrattazione aziendale già previsto nell’accordo del 2011 con qualche ulteriore elemento che concorre a sganciare la dinamica sindacale aziendale dalla dinamica nazionale (penso, per esempio, all’eliminazione del terzo riservato oppure alla legittimazione negoziale esclusiva delle Rsu, senza alcun raccordo necessario col sindacato nazionale).
Sui contenuti specifici, poi, il TU 2014 ha risolto alcune questioni che da tempo affliggevano il sistema intersindacale o questioni più specifiche generate dallo stesso protocollo del 2013 (cfr. I.Regalia Quale futuro dopo l’accordo di maggio, 9 gennaio 2014),senza però risolverle tutte e, in più, generandone di nuove.
Le questioni sulla rappresentanza sindacale aziendale
Il TU 2014 ha riformato la disciplina delle Rsu risalente all’accordo interconfederale del 1993. In linea generale, la nuova regolazione ha, contemporaneamente, accentuato e ridotto il suo ruolo di principale forma di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro; allo stesso modo, ha contemporaneamente accentuato e ridotto il suo legame col sindacato nazionale di categoria.
Riguardo al ruolo di rappresentanza sindacale aziendale, fin dall’accordo del 2011, la Rsu ha perso l’esclusiva non essendo più la sola forma di rappresentanza sindacale aziendale voluta dall’autonomia collettiva. Aver regolato con l’accordo del 2011 la procedura di sottoscrizione di un contratto aziendale in deroga anche da parte delle Rsa finisce per legittimare alla contrattazione questa forma di rappresentanza sindacale e ciò, oggettivamente, indebolisce la prerogativa rappresentativa della Rsu. Pertanto, almeno a prima vista, potremmo dire che – a differenza dell’accordo del 1993 – il sistema attuale ha riabilitato quella forma di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro a più stretto vincolo con le associazioni sindacali nazionali.
Invece, altre clausole presenti del TU 2014 sembrano indicare un orientamento inverso. Prendiamo in esame la clausola di salvaguardia: essa non riguarda più soltanto l’impegno dei sindacati che partecipano alle elezioni alle Rsu a non costituire Rsa (come già previsto nell’accordo del 1993), ma anche l’impegno a non costituirle qualora siano state già costituite Rsu in passato. Questa seconda disposizione non è uguale alla precedente: infatti, potrebbe darsi il caso di un’associazione sindacale che finora ha partecipato alle elezioni delle Rsu e che decida di non presentare la lista alla successiva tornata elettorale delle Rsu, preferendo costituire Rsa Ebbene, la clausola di salvaguardia così congegnata rende la partecipazione alla elezione delle Rsu un punto di non ritorno; il che potrebbe farci dire – contrariamente a quanto detto prima – che il TU 2014, pur legittimando entrambe le forme di rappresentanza, ha preferenza per la Rsu. Insomma, da queste brevi osservazioni sembra che il TU 2014 si muove in direzioni opposte, ora favorendo la Rsu, ora favorendo le Rsa.
Credo più utile, però, cambiare prospettiva d’analisi. Tradizionalmente, la differenza fra Rsu e Rsa si è basata principalmente sull’intensità del vincolo della rappresentanza sindacale aziendale con le associazioni sindacali nazionali, da una parte, e col gruppo dei lavoratori dell’azienda, dall’altra. Ebbene, in questa prospettiva, nel TU 2014 il vincolo col sindacato nazionale sembra allentarsi a vantaggio del rapporto col gruppo aziendale dei lavoratori.
Prendiamo in esame la clausola sulla composizione della Rsu. Finora l’opinione prevalente (in dottrina e giurisprudenza) ha sostenuto che le Rsu non fossero altro che una modalità di costituzione delle Rsa ex art. 19 St. lav. e che, perciò, si caratterizzavano comunque per il vincolo associativo, sicché i membri della Rsu sarebbero espressione delle associazioni sindacali nelle cui liste sono stati eletti. Il voto dei lavoratori esprimerebbe il consenso verso le liste medesime e non verso i singoli. In effetti, questa tesi trova conferma anche nella nuova disciplina della decadenza da Rsu in caso di mutata affiliazione sindacale (il c.d. cambio di casacca, su cui di recente la Cassazione ha negato la decadenza da Rsu (cfr. Cass. 7 marzo 2012, n. 3545): il TU 2014 stabilisce che il membro di Rsu decade e viene sostituito dal primo dei non eletti nella lista dell’associazione. Insomma, prevale il voto alla lista e non alla persona.
Al contrario, la clausola del TU che elimina il c.d. “terzo riservato” (implicitamente già prevista nel protocollo del 2013, ora nel TU 2014, Parte II) rappresenta uno dei cambiamenti più significativi nel senso dell’allentamento del vincolo associativo (cfr. F. Liso, Brevi note sul Protocollo Confindustria, Cgil, Cisl e Uil del maggio 2013, in Riv. Giur. Lav., 2013, n. 4).
E poi c’è la legittimazione a negoziare al livello aziendale. Mentre nell’accordo del 1993 la Rsu negoziava al livello aziendale unitamente alle articolazioni territoriali del sindacato nazionale, oggi – già dall’accordo del 2011 – la legittimazione è esclusiva. Peraltro, il fatto che le Rsa siano legittimate a negoziare contratti aziendali in deroga «d’intesa» con i sindacati territoriali conferma la mia impressione se l’«intesa» significa che sono le Rsa a contrattare mentre ai sindacati territoriali spetta esprimere un parere, certamente obbligatorio, anche se non è ancora chiaro se debba essere vincolante. Naturalmente, in pratica, la Rsa, fiduciaria del sindacato nazionale in azienda, difficilmente confliggerà con l’indicazione sindacale; nondimeno la clausola non attribuisce legittimazione a contrattare al sindacato territoriale.
Concludendo sul punto, mi sembra di poter confermare che attraverso le modifiche apportate alla disciplina del 1993 sulla rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro – seppur con ambivalenze – risulta più valorizzata la dimensione endo-aziendale della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro. D’altronde, al consenso dei lavoratori si fa appello attraverso il voto alle Rsu (senza più terzo riservato) oppure attraverso la possibilità di indire un referendum da parte della Rsa dissenziente (ovvero da parte di un certo numero di lavoratori). Insomma, mi sembra che la dinamica intersindacale sia più propensa a sviluppare il coinvolgimento diretto dei lavoratori nella dimensione aziendale anziché coltivare le forme di democrazia rappresentativa. Ma ciò non deve meravigliare dal momento che i sistemi a più marcata centralità di contrattazione aziendale si reggono su modelli di democrazia diretta, a scapito della democrazia rappresentativa. Perciò, se si tratta di contrattazione aziendale, meglio avere prima di tutto il consenso dei lavoratori di quell’azienda. Resta il problema del doppio regime di rappresentanza in azienda che rimanda a modelli di rappresentanza sindacale a doppio canale. Perciò non è peregrino ipotizzare anche che l’aziendalizzazione del sistema di relazioni industriali porti con sé il modello a doppio canale o, addirittura, a canale unico di rappresentanza diretta.
Le questioni sulla rappresentanza sindacale nazionale
Il TU 2014 ha regolamentato la misurazione della rappresentatività sindacale al livello nazionale. Il sistema previsto dal protocollo del 2013 è stato precisato nelle sue modalità operative. Oggi sappiamo che il sistema potrà funzionare solo grazie a una convenzione con l’Inps con la quale si dovrà integrare il modello Uniemens, redatto da ciascun’azienda, nel quale indicare due codici identificativi: uno per ciascun sindacato nazionale di categoria e l’altro per ciascun CCNL vigente. Ciò permetterà di avere un dato certo sul numero d’iscritti a ciascun sindacato nazionale per ambito di contratto nazionale.
Questo dato, poi, sarà mediato col dato percentuale di consenso espresso dai lavoratori alle medesime associazioni sindacali che abbiano presentato liste alle elezioni delle Rsu. Questo secondo indice è più incerto del primo perché, pur nel perimetro definito dal contratto nazionale, è riferito a un ambito ancor più ristretto dal momento che non in tutte le imprese che applicano il contratto nazionale si procede all’elezione delle Rsu. Questo vuol dire che il dato elettorale avrà un perimetro più piccolo rispetto a quello entro cui misurare gli iscritti.
Qui però c’è un’altra clausola – invero non prevista nel protocollo del 2013 – in base alla quale la rilevazione del numero degli iscritti riguarderà solo le imprese con più di 15 dipendenti. Presumo che questa delimitazione sia finalizzata a rendere un po’ più omogeneo l’ambito di misurazione dato che alle elezioni della Rsu si può procedere solo nelle imprese con più di 15 dipendenti. Il paradosso è che questa delimitazione, finalizzata a correggere una distorsione rappresentativa, ne crea un’altra, uguale e contraria. Escludere dal calcolo degli iscritti i lavoratori delle imprese con meno di 15 dipendenti, moltissime delle quali applica il contratto nazionale del sistema confindustriale, significa ridurre l’ambito di rappresentazione del consenso ai sindacati. Non mi nascondo che queste imprese costituiscono una piccola parte rispetto a quelle che applicano i contratti di Confindustria (quanto piccola non saprei dire); quindi, sarebbe un difetto sopportabile per avere maggiore omogeneità del dato numerico. Ciò non toglie che si tratta di una menomazione nella rilevazione numerica degli iscritti che non computa una larga fetta di lavoratori.
Ma c’è anche altro. L’ambito di misurazione è determinante per verificare in modo efficace la rappresentatività sindacale; credo che definire l’ambito col contratto nazionale applicato in un sistema in cui il pluralismo associativo delle imprese provoca una frammentazione contrattuale molto alta e in cui anche nello stesso ambito confindustriale c’è una frammentazione contrattuale(denunciata dalle stesse parti annunciando di voler accorpare i contratti) (cfr. A. Viscomi, Prime note sul Protocollo 31 maggio 2013, in Riv. It. Dir. Lav., 2013, I, p. 764) significa, per fare un esempio, che le federazioni del settore dei trasporti avranno diversi indici di rappresentatività a seconda che si tratti dell’ambito definito dal contratto nazionale di Merci e Logistica, di TPL, di Gestione Aeroportuale, di Rete Ferroviaria, ecc.; senza contare alcune aziende di livello nazionale che per tradizione non applicano un contratto nazionale di categoria (Poste, Rai, Alitalia) (il rilievo in A. Maresca, Il contratto collettivo nazionale di categoria dopo il Protocollo d’intesa 31 maggio 2013, cit., p. 720). Riconosco che questa disarticolazione della rappresentatività di una stessa federazione in base alle diverse categorie è quanto accade, grosso modo, per i comparti del pubblico impiego; ma questa analogia non elimina i dubbi sulla adeguatezza di un criterio di qualificazione della rappresentatività sindacale basato sulla applicazione di una formula aritmetica di calcolo che esige necessariamente la delimitazione di un ambito di misurazione.
Formula aritmetica, poi, che dovrà pur essere chiarita per l’applicazione. Infatti, il TU 2014 stabilisce che «sono ammesse alla contrattazione collettiva nazionale le federazioni delle organizzazioni sindacali firmatarie del presente accordo e dell’AI 2011 e del PI 2013, che abbiano, nell’ambito di applicazione del contratto nazionale, una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tale fine la media fra il dato associativo (…) e il dato elettorale (…) come risultante dalla ponderazione effettuata dal Cnel».Una volta individuato l’indice di rappresentatività di ciascuna federazione si procederà alla validazione delle piattaforme o del contratto nazionale se avranno il consenso del «50% + 1» degli indici di rappresentatività. Occorre definire a cosa si riferisca il «+1»: non può essere «+1» voto né «+1» iscritto. E allora, evitando di ricorrere a esegesi capziose, bisogna intendere la formula «50% + 1» come «superiore al 50%».
Benché – è bene riconoscerlo – il pericolo della capziosità è un effetto collaterale (forse necessario) dell’applicazione della “regola dei numeri”. La regola dell’aritmetica fa si che 100, 15 o anche solo 1 voto o delega(su migliaia di voti o deleghe) possano attribuire o meno il diritto a partecipare alle trattative e – conseguentemente – a raggiungere la maggioranza per validare un contratto collettivo. Certo, si ha «certezza delle regole»; il punto è se a questa certezza corrisponde anche una «efficienza delle regole» quando si tratta di rappresentare interessi e gruppi sociali.
La questione del requisito per costituire Rsa
Talvolta la certezza delle regole intersindacali può sciogliere i nodi creati dall’ordinamento giuridico legale. Mi riferisco alla questione sollevata del requisito previsto dall’art. 19 st. lav. per costituire le Rsa alla quale il TU 2014 apporta il suo contributo. Nella Parte II del TU si legge quante segue: «ai fini del riconoscimento dei diritti sindacali previsti dalla legge, ai sensi dell’art. 19 e ss. della legge 20 maggio 1970, n. 300, si intendono partecipanti alla negoziazione le organizzazioni che abbiano raggiunto il 5% di rappresentanza, secondo i criteri concordati nel presente accordo, e che abbiano partecipato alla negoziazione in quanto hanno contribuito alla definizione della piattaforma e hanno fatto parte della delegazione trattante l’ultimo rinnovo del contratto nazionale definito secondo le regole del presente accordo».
Si tratta di una clausola che rimanda al 1993,all’istituzione della Rsu. A questa forma di rappresentanza si arrivò dopo che nel 1990 la Corte costituzionale (con la sentenza n. 30) ammonì il legislatore affinché intervenisse sull’art. 19 st. lav. per modificare i requisiti legali storico-presuntivi previsti per le Rsa. La Corte invocò una maggiore rappresentatività effettiva e verificata; le parti sociali – in assenza di intervento legislativo – dettero il loro contributo prevedendo la rappresentanza elettiva universale.
Col TU 2014, mi sembra che si ripeta quello schema. Questa volta sullo sfondo c’è la sentenza della Corte costituzionale n. 231/2013 intervenuta a dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 19 st. lav. nella parte in cui nega a un sindacato effettivamente rappresentativo di costituire Rsa quando non sia firmatario di contratto collettivo applicato nell’unità produttiva (mi permetto di rinviare al mio La razionalità pratica dell’art. 19 st. lav., in Quest. Giust., 2013, n. 4).La Corte ha stabilito che «nel momento in cui viene meno alla sua funzione di selezione dei soggetti in ragione della loro rappresentatività e, per una sorte di eterogenesi dei fini, si trasforma invece in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale o comunque significativamente rappresentativo, sì da non potersene giustificare la stessa esclusione dalle trattative, il criterio della sottoscrizione dell’accordo applicato in azienda viene inevitabilmente in collisione con i precetti di cui agli artt. 2, 3 e 39 Cost.».
Ciò detto, la Corte – nel finale obiter dictum – ammette che la sentenza non individua un nuovo criterio selettivo indicando invece una serie di possibili criteri che, comunque, rimette al legislatore; fra questi «numero degli iscritti», «obbligo a trattare con le organizzazioni sindacali che superino una determinata soglia di sbarramento», «rinvio generale al sistema contrattuale e non al singolo contratto collettivo applicato nell’unità produttiva», «diritto di ciascun lavoratore ad eleggere rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro». Insomma, la Consulta indica una varietà di indicatori sufficiente a rendere coerente con i principi costituzionali i criteri legali per costituire Rsa, al contrario della sottoscrizione del contratto nazionale. Ciò che viene sanzionato, dunque, è la regola per la quale il dissenso sindacale su un contratto collettivo (che si manifesti attraverso la mancata firma) provochi conseguenze sul piano delle agibilità sindacali.
Fermo restando la Rsu, laddove siano costituite Rsa, il TU 2014 interviene a porre i suoi requisiti negoziali. Confrontiamo questi requisiti con quelli indicati esemplificativamente dalla Consulta. Ebbene, il TU 2014 ne richiede ben 3: 1) che le organizzazioni abbiano superato la soglia del 5% di rappresentatività nazionale; 2) «che abbiano partecipato alla negoziazione in quanto hanno contribuito alla definizione della piattaforma»; 3) che abbiano «fatto parte della delegazione trattante l’ultimo rinnovo del contratto nazionale definito secondo le regole del presente accordo».
Il primo requisito risponde quasi fedelmente a uno dei suggerimenti della Consulta: una volta che si supera una certa soglia di rappresentatività nazionale si acquisisce il diritto a costituire Rsa. Ma a questo requisito il TU 2014 ne aggiunge altri due che poggiano su un passaggio della sentenza della Consulta nel quale si sancisce che il diritto a costituire Rsa spetta anche ai sindacati «che, pur non firmatari dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti». È apparso subito a tutti chiaro che la questione si sarebbe incentrata su questo punto: cosa intendere per «partecipazione alla trattativa»?
Il TU 2014, per parte sua, non si limita a rimandare all’indice misurato di rappresentatività nazionale (come esemplificato dalla stessa Corte) ma aggiunge il requisito della «partecipazione alla trattativa» dandone una specificazione: si partecipa alle trattative quando si contribuisce alla definizione «della piattaforma» e si faccia parte della «delegazione trattante». Si tratta di una clausola il cui contenuto è funzionale alla disciplina generale delineata con gli AI 2011, il PI 2013 e il TU 2014. Regolando la rappresentanza e la contrattazione collettiva, in un quadro di riforma della disciplina della Rsu, in un quadro di rilegittimazione intersindacale delle Rsa (e per di più dopo la sentenza della Consulta), è comprensibile che il diritto intersindacale dia il proprio contributo alla costruzione di regole, come già è avvenuto nel 1993.
Il problema è di contenuto ed è sempre lo stesso: cosa significa «contribuire alla definizione della piattaforma»? Poiché il nuovo sistema consente di presentare anche piattaforme separate, bisogna quanto meno intendere la clausola nel senso che «la piattaforma» significa «le piattaforme» (al plurale), cioè sia quella di maggioranza sia quella di minoranza, tanto più che entrambe le piattaforme hanno diritto di essere “trattate” (A. Maresca, op. cit., p. 729). Naturalmente, è comprensibile che le imprese diano più peso e preferenza alla piattaforma di maggioranza; ma ciò non toglie che la trattativa sussiste quando si apre; e si apre quando si presentano le piattaforme, inclusa quella di minoranza.
Il criterio sulla partecipazione alla delegazione trattante, poi, deve essere inteso nel medesimo senso: poiché non si può certo chiedere a chi non ha condiviso la piattaforma di maggioranza di partecipare alla delegazione trattante su questa (salvo che non si voglia includere anche la funzione di “uditore” alla trattativa), va da sé che la presentazione della piattaforma di minoranza implica automaticamente la composizione di una delegazione trattante di minoranza. Il diritto a costituire Rsa, quindi, spetta a seguito di costituzione della delegazione trattante, anche se poi la trattativa dovesse interrompersi immediatamente o addirittura non avviarsi.
Insomma, a conti fatti, i requisiti della piattaforma e della delegazione trattante, essendo riferiti anche alla minoranza dissenziente, finiscono per essere un’inutile complicazione perché ciò che davvero costituisce requisito per costituire Rsa è l’aver superato la soglia del 5% di rappresentatività. Diversamente, si cadrebbe nella capziosa tentazione di fare per la formula «partecipazione alla trattativa» ciò che si è fatto per la formula «firmatari di contratti collettivi»; quindi operare distinzioni fra partecipazione “attiva” e “passiva”, oppure distinguere fra “consultazione sindacale” e “trattativa vera e propria” (v. A. Maresca, Costituzione della Rsa e sindacati legittimati, paper presentato alla Tavola Rotonda su Rappresentatività, diritti sindacali e processo negoziale, Roma, 12 dicembre 2013,promossa da AGI-Lazio, MD, Riv. Giur. Lav.) potrebbe condurre a creare più problemi di quanti se ne vogliano risolvere. Anche perché, diversamente, qualunque criterio che escluda il diritto di costituire Rsa a un sindacato effettivamente rappresentativo, tanto più dopo un procedimento di misurazione, sarebbe in evidente contrasto con la ratio costituzionale ribadita dalla Corte costituzionale.
Conclusione: un Testo Unico sull’esigibilità contrattuale
In conclusione, il TU 2014 formalizza un sistema di regole su rappresentanza sindacale e contrattazione collettiva al fine di governare il conflitto intersindacale per – in fondo – governare il conflitto collettivo. Le regole sulla rappresentanza sindacale improntate al principio di maggioranza sono regole per governare il conflitto sul contratto collettivo (mi permetto di richiamare il mio Principio di maggioranza e relazioni industriali, 14 novembre 2013). Come si legge nel TU 2014, «il rispetto delle procedure sopra definite comporta che gli accordi in tal modo conclusi sono efficaci ed esigibili per l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici nonché pienamente esigibili per tutte le organizzazioni aderenti alle parti sono l’obiettivo del nuovo sistema di regole intersindacali (F. firmatarie della presente intesa». Quindi, efficacia erga omnes ed esigibilità F. Liso, Brevi note sul Protocollo Confindustria, Cgil, Cisl e Uil del maggio 2013, cit. parla di «maggiore novità»; nello stesso senso V. De Stefano e S. Liebman, Le clausole che regolano la trattativa sindacale nel Protocollo d’Intesa del 31 maggio 2013, in Arg. Dir. Lav., 2013, p. 748).
Non a caso, la parola «esigibilità» è ripetuta ben 7 volte e l’aggettivo «esigibile» ben 3 in diverse clausole oltre alle altrettanto numerose ripetizioni della parola «efficacia». Tutta la Parte Quarta e le Clausole Finali sono destinate a suggellare la proceduralizzazione maggioritaria dei contratti collettivi per garantire l’esigibilità. Non solo prescrizioni ma anche sanzioni: la «necessità di definire disposizioni volte a prevenire e a sanzionare eventuali azioni di contrasto di ogni natura, finalizzate a compromettere il regolare svolgimento dei processi negoziali… nonché l’esigibilità e l’efficacia dei contratti collettivi». D’altronde, se già nel protocollo del 2013 si era posta la condizione di prevedere «conseguenze per l’inadempimento», il TU 2014 ha regolato e disciplinato questo profilo sanzionatorio con particolare enfasi e ricchezza di contenuto, spingendo la disciplina oltre le previsioni attese.
Non si può negare che l’esigibilità di un contratto garantisce anche gli interessi sindacali a che le imprese osservino le norme sulle prerogative sindacali. Però, l’effetto principale dell’esigibilità investe il conflitto collettivo e lo sciopero. Infatti, sono le sanzioni al sindacato ad essere più chiaramente evidenziate quando si prevede la «temporanea sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale e di ogni altra agibilità dalla presente intesa»allorché una delle parti violi l’accordo. E non c’è dubbio che parlare di clausole di tregua significa parlare di obbligo di pace e di “influenza” sui lavoratori affinché anch’essi garantiscano l’applicazione del contratto. È evidente che ci si riferisce allo sciopero; in particolare allo sciopero spontaneo o in adesione a scioperi proclamati da altri sindacati.
Un sistema sanzionatorio collettivo (nonostante qualche equivoco rafforzativo nel testo potrebbe alludere anche ai comportamenti individuali) che ha visto anche l’istituzione di una procedura di arbitrato collettivo a carattere confederale, seppur in via transitoria, in attesa di regole nazionali di categoria. Soprattutto, ha visto l’istituzione di una Commissione Interconfederale per monitorare l’attuazione del TU 2014 e «garantire l’esigibilità» attribuendole «poteri di intervento per garantire l’esigibilità».
Il carattere di fondo dell’accordo, è l’affermazione dell’efficacia e dell’esigibilità del contratto collettivo; sinonimi che non aggiungono niente di nuovo alla rilevanza giuridico-privatistica dei contratti senza un intervento legislativo, ma che hanno una rilevanza intersindacale di primissimo piano. Come giustamente si è detto già a proposito del protocollo del 2013, «l’esigibilità è un dato totalmente interno al sistema intersindacale… strumento proprio dell’ordinamento intersindacale che legittima e presidia ciò che nell’ordinamento statuale non sarebbe possibile garantire…» (A. Viscomi, Prime note su Protocollo 31 maggio 2013, cit., p. 773). Col TU 2014 si suggella sul piano intersindacale un principio che la dottrina degli anni ’50 riteneva fosse implicito nella stipulazione di un contratto collettivo: il principio pacta servanda sunt, secondo il quale la sottoscrizione di un contratto collettivo pone obblighi a carico delle parti firmatarie con relativa applicazione del principio dell’eccezione d’inadempimento, per cui se una parte non adempie la propria prestazione, l’altra può non adempiere la propria (A. Maresca, Il ccnl dopo il Protocollo d’Intesa, cit., p. 743). Oggi quell’obbligo si arricchisce di una clausola che pone l’obbligo esplicito di pace sindacale, anch’esso invero risalente alle esperienze contrattuali degli anni ’60.
In breve, il nuovo diritto intersindacale, col principio dell’esigibilità, disegna una prospettiva di governo del conflitto collettivo confermando che disciplinare l’efficacia del contratto collettivo col principio di maggioranza significa, in fondo, disciplinare il diritto di sciopero.
Vincenzo Bavaro