L’obbligo dei pessimisti è diventare ottimisti. E spargere allegria. Quando tutto va male, anzi peggio, che senso ha fare fosche previsioni? Se la realtà supera il nichilismo, Feder Dostoevskij deve cedere il posto a Groucho Marx. Piagnoni e Flagellanti lasciamoli nelle nebbie dell’irrazionalità. Girolamo Savonarola deve convincersi che siamo pentiti di tutto. Di aver saccheggiato la Terra, di aver sfruttato i nostri simili, di aver ucciso, litigato, schiavizzato, violentato, mentito, brigato, imbrogliato, rubato, truffato, tradito, invidiato, concupito. I peccati dell’umanità sono indicibili ma nulla può frenare la voglia di vivere.
Non è l’apocalisse, non arrivano le piaghe d’Egitto, non incombe il Ragnarok. La peste nera e la spagnola sono durate a lungo e hanno fatto milioni di morti. Prima o poi, anche il Covid 19 passerà. Magari a forza di lavarci le mani e prendere precauzioni diventeremo tutti ipocondriaci. Un tempo una febbretta era una scusa per restare a casa, ora 37,5 equivale al terrore. Non siamo noi a marinare le lezioni o ad assentarci dal lavoro: sono le scuole e gli uffici che rischiano di essere chiusi. Uno starnuto, un colpo di tosse, un banale mal di gola, un’indigestione: qualsiasi sintomo fa scattare l’allarme. Oddio, avrò preso il Covid? Subito in fila a fare i tamponi.
Lo chiamano social anxiety disorder (disturbo d’ansia sociale). Lo alimenta il turbinio di notizie che ci insegue ovunque: l’infodemia, l’eccesso di informazioni, in buona parte false o esagerate, secondo l’Oms è a sua volta un virus che va curato. Poi, altro neologismo sbandierato dall’Organizzazione mondiale della sanità, ecco la pandemic fatigue, la stanchezza, l’astenia, la fatica di sopportare questo carico di allarme continuo. Gli effetti possono essere duplici: da una parte l’insorgere di una forma di abulica rassegnazione e cieca acquiescenza, dall’altra insofferenza e rifiuto con tutte le declinazioni che oscillano tra fatalismo e negazionismo passando per un riduttivo relativismo.
Il governo proroga l’emergenza e viene criticato perché ricorre ancora una volta allo strumento del decreto e in ogni caso le misure adottate suscitano sempre un coro di critiche, urlate ad uso e consumo dei cinici talk show in cerca di audience. Quando si pensava di vietare le feste in famiglia, ora solo sconsigliate, un commentatore onnipresente ha evocato lo stato comunista. A parte la persistente e strumentale polemica politica contro un’ideale di uguaglianza frantumato dal crollo dell’impero sovietico, forse avrebbe fatto meglio a parlare, perché questo sì l’abbiamo conosciuto direttamente, di stato fascista, quando il portiere faceva l’informatore per la polizia e il caposcala denunciava le persone sospette.
Andiamo avanti in un’altalena di speranze e di timori. Dove si colloca il valore di soglia, cioè il rapporto tra test e soggetti positivi? Il numero dei decessi è di gran lunga inferiore rispetto alla quantità dei contagiati? Quanto si stanno intasando gli ospedali e le sale di rianimazione? Qual è la proporzione tra le morti attribuibili in toto al Coronavirus, quelle nelle quali è concausa e quelle dovute a tutte le altre malattie e agli incidenti stradali?
Domande che non hanno una risposta certa. Non sappiamo se Natale e Capodanno saranno feste tristi e solitarie come già la Pasqua e il Primo Maggio. Non eravamo preparati a questa recrudescenza, seconda ondata o proseguimento della prima che dir si voglia. L’estate ci ha ingannati. Tutti gli altri Paesi stanno peggio di noi ma non è chiaro se ci collochiamo più avanti o più indietro di loro. Gridiamo ai provvedimenti liberticidi ma poi sosteniamo che quelli presi sono troppo blandi, confusi, ritardatari. Forse servirebbe davvero un’assunzione di responsabilità di tutti i partiti, maggioranza e opposizioni, magari in un comitato bipartisan che affianchi e coadiuvi l’esecutivo. Quantomeno servirebbe a separare il grano delle decisioni dal loglio delle diatribe.
Prima o poi passerà. Non facciamoci prendere dal panico. La vita è bella.
Marco Cianca