Andrea Ciampani – Professore Associato di Storia Contemporanea e Docente di Storia delle Relazioni Industriali all’Università Lumsa
Pochi giorni prima del referendum sull’abolizione dell’articolo 18 della legge denominata Statuto dei lavoratori, l’11 giugno scorso, il Diario del Lavoro ha organizzato un significativo incontro al Cnel dedicato all’analisi e alle prospettive di un anno di relazioni industriali. In quella occasione i relatori, concordando sull’importanza e sulla drammaticità dell’anno trascorso, hanno richiamato l’attenzione su due eventi in particolare: il Patto per l’Italia e le vicende del contratto dei metalmeccanici. Poi, il 15 e 16 giugno, nei due giorni della consultazione referendaria che ha diviso le parti sociali, si è registrata la più bassa partecipazione alle urne nella storia del referendum in Italia: meno del 26 % degli aventi diritto. Il quesito referendario è stato così sconfitto. D’altra parte, oltre 10 milioni di cittadini hanno espresso politicamente il loro assenso alla domanda abrogativa. Sembra opportuno, ora, domandarsi se l’esito del referendum abbia chiuso una stagione delle relazioni industriali e se possa rappresentare un elemento utile all’individuazione delle dinamiche della regolazione economico-sociale. La correlazione istituita tra il convegno e il referendum costituisce, comunque, un invito a sollevare il velo che alcuni commenti puramente politici possono frapporre alla comprensione delle relazioni industriali nel nostro Paese.
1. Certamente, un’analisi politica è opportuna per evidenziare le mosse di coloro che all’interno del sistema dei partiti hanno promosso o subita la competizione referendaria. D’altra parte, è parimenti facile osservare come il proprio risultato politico Bertinotti l’avesse acquisito già prima del referendum, bloccando l’iniziativa di Cofferati nello schieramento dei partiti della Sinistra. Comprensibilmente, il leader di Rifondazione comunista non ha mostrato esitazioni ad ammettere la sconfitta numerica sul piano elettorale che tanto l’aveva già appagato politicamente; ed è passato oltre. Con lui, tutti gli attori del sistema dei partiti che l’iniziativa referendaria aveva messo in difficoltà sono passati a dibattere nuovi temi politici, anche dopo aver riscosso una vittoria che non consentiva, fin dalle sue premesse, eccessivi entusiasmi.
Sono apparse, così, quanto mai stonate le dichiarazioni di coloro che hanno voluto rivendicare un parziale successo della Cgil o di coloro che hanno proclamato un irresistibile declino del sindacato. La politica era già andata avanti, poco curandosi degli evidenti e previsti, richiesti quanto inutilizzabili nell’arena politica, comportamenti politici dell’elettorato – dei cittadini che hanno votato e di quelli che hanno scelto di non votare.
2. Che cosa può suggerire tutto questo al tentativo di una maggiore comprensione dello stato delle relazioni industriali? Si può osservare che mentre si diffonde una sempre più chiara percezione della reale differenza tra rappresentanza politica e rappresentanza sociale, c’è ancora chi nega la differenza e l’autonomia dei due piani, impedendo la crescita della responsabilità del movimento sindacale e la sua effettiva partecipazione ai processi decisionali del Paese. Una partecipazione che non è più, oggi, soltanto un’aspirazione del “lavoro organizzato”, ma una sempre più matura esigenza della vita democratica e della governance.
Tale negazione costituisce un vizio antico della cultura politica italiana e radicato, soprattutto ma non solo, nella Sinistra post-comunista. La primazia dei partiti politici sulla rappresenta sociale è stata esercitata, infatti, lungo i cinquanta anni della vita repubblicana, talora arginata dalla nascente Cisl. Il primato del partito sul movimento organizzato dei lavoratori, peraltro, si è radicato nella Sinistra per la resistenza del Pci, ancora negli anni Ottanta, a cedere al movimento sindacale l’effettiva rappresentanza “politica” della loro azione sociale. Non deve stupire se nella Sinistra alcuni politici – si pensi all’iniziativa sulle 35 ore, che ha aperto la crisi del Governo Prodi – continuano a trasferire conflitti che appartengono al confronto delle parti sociali sul piano della lotta di partito, al fine di conseguire ben definiti vantaggi politici. Impedendo, così, una libera e virtuosa regolazione sociale e uno sviluppo della responsabilità degli attori sociali.
Nell’ultimo confronto referendario i promotori hanno costretto milioni di cittadini ed elettori a considerare le nuove relazioni di lavoro sulla base di battaglie in genere propagandistiche e semplificatorie, tenendoli in ostaggio di finalità che ben poco avevano a che fare con la realtà sociale interessata dal quesito. Il referendum sull’articolo 18 ha turbato le relazioni industriali per aver rinnovato la pretesa, inefficace se non per giochi di Palazzo, della rappresentanza politica di esautorare le parti sociali dalla regolazione di complesse dinamiche economico-sociali e per aver confermato un grave ritardo della cultura socio-politica.
3. Il movimento sindacale, tuttavia, ha mostrato una vivace insofferenza per il rinnovarsi di tale situazione. Sia pure ad urne chiuse, dopo gli equilibrismi politici cui sono ricorsi nella fase pere-elettorale, i sindacati hanno iniziato a dichiarare apertamente l’esigenza di passare ad una nuova fase delle relazioni industriali. Così, Renato D’Agostini sulla “Rassegna OnLine del Lavoro, il 17 giugno, si è spinto ad indicare il punto: “non si può più rinviare una riflessione approfondita sul rapporto tra rappresentanza politica e rappresentanza sociale […]. E’ in gioco, più che l’unità, il ruolo del sindacalismo confederale e il rapporto di fiducia con milioni di cittadini che chiedono non una rappresentanza politica ma una rappresentanza sociale capace di imprimere finalmente una svolta anche al sistema politico.” Più semplicemente, con la libertà e l’asciuttezza che gli è consentita dalla storia sindacale della Cisl, Pezzotta ha commentato l’esito referendario invitando a non chiamare più mai più alle urne su temi sindacali.
I sindacati affrontano, come osservava Accornero, la “rielaborazione del lutto” relativo alle antiche consuetudini con il sistema dei partiti scomparso. Nello stesso tempo devono fare i conti con le proprie scelte di fondo, perché proprio sulle strategie i sindacati (Cgil da un lato, Cisl e Uil dall’altro) hanno preso fin qui strade diverse. Su questo non sono possibili mediazioni verbali. Due fatti, peraltro, sembrano accompagnare contraddittorie dichiarazioni, suggerendo la possibilità di un nuovo sentiero confederale.
4. Prima ancora dello svolgimento del referendum erano state avviate alcune trattative tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, per giungere all’accordo firmato il 19 giugno e sottoscritto con “la duplice finalità” di “consolidare […] una prassi di relazioni industriali” finalizzate allo sviluppo economico del Paese e di “avanzare su alcuni specifici argomenti dettagliate proposte di merito.” Insomma, un accordo per ridare spazio alla rappresentanza sociale e alla necessaria iniziativa degli attori sociali nella governance nazionale.
Ma già il 17 giugno, ad urne ancora aperte, è stato siglato dai sindacati confederali un documento unitario assai significativo: si tratta di una comune presa di posizione sulla violenza politica e sul terrorismo, oggetto di delicato confronto nei giorni precedenti, destinata a chiudere la ferita più sanguinante della campagna referendaria, quella degli insulti e delle aggressioni subite dalla Cisl. Meritano particolare attenzione le ragioni del documento, che sostengono una condanna non rituale del terrorismo e un appello non formale al Governo perché s’impegni nel suo ruolo di difesa della vita democratica, dopo aver riconosciuto esplicitamente che l’intolleranza e la violenza politica nel dibattito sociale “inevitabilmente tradiscono la solidarietà del movimento sindacale”.
Infatti, Cgil, Cisl e Uil affermano che “il movimento sindacale libero e indipendente costituisce un’esigenza strutturale della società civile e una garanzia dell’ordinamento democratico”, osservando che “laddove è stata negata […] la presenza di un sindacato libero e responsabile, è stata negata la libertà e la democrazia”. Di più, sembrano suggerire una delineata prospettiva sindacale: “è la partecipazione di una moltitudine di uomini e donne capaci di sviluppare il loro impegno civile e sociale che garantisce una continuità democratica nei processi innovativi nel lavoro e nell’economia”; così “il sindacalismo confederale, attraverso la sua forza di attore sociale è costruttore di un ordine di convivenza sociale, di maggiore uguaglianza di opportunità, di vera partecipazione e perciò di ampliamento di democrazia”.
Una nuova stagione della regolazione sociale e politica potrebbe aprirsi se il movimento sindacale vorrà e saprà sviluppare questi accenti comuni nella cultura e nella pratica delle relazioni industriali.