Sul Diario del Lavoro Massimo Mascini e Marco Cianca hanno di recente auspicato che i congressi sindacali, il prossimo della Cgil è a gennaio 2019, siano occasione per un ripensamento strategico del ruolo e dell’agire del sindacato e non (solo) luogo di confronto sulle necessarie revisioni interne. Sono tanto cambiati il mondo e l’Italia (nel lavoro, nell’economia, nella società) che è necessaria una riprogettazione del sindacato e non basta un restyling.
Condivido questo invito e questa urgente necessità per tutto il sindacato italiano. Avevo tentato di introdurre gli stessi temi col blog “Se non ora quando” del 4 aprile scorso, quando a un mese dalle elezioni si poteva già intuire il seguito nefasto della vittoria nazional-populista.
Riprendo quella riflessione aggiungendo l’ipotesi di un percorso unitario di rinnovamento, se non di un patto più largo tra i principali soggetti della società civile.
In estrema sintesi, per iniziare ed evitare fraintendimenti, penso si possa convenire su alcuni punti.
1. La crisi dei partiti di massa e la “disintermediazione” praticata anche da sinistra hanno fatto sì che per la prima volta dal dopoguerra ai sindacati manchi una relazione privilegiata con la politica (e viceversa). L’opinione pubblica considera i sindacati parte della “casta” ma su questo si sbaglia. I sindacati, da almeno 20 anni, subiscono le iniziative legislative dei governi senza riuscire a condizionarle nemmeno in minima parte. Altrettanto è successo al Parlamento che ha finto di detenere un potere legislativo che in realtà è stato interamente e impropriamente delegato ai governi (tecnici e politici, di destra o sinistra, che fossero).
2. La stessa dinamica è toccata in sorte alle organizzazioni delle imprese che, forse, per la prima volta da molti anni, non hanno interlocutori affidabili per svolgere nemmeno quel ruolo di lobby che era stato loro sempre riconosciuto dai governi.
3. Prima la destrutturazione del mercato del lavoro, poi la finanziarizzazione dell’economia e la sopraggiunta crisi, ora l’innovazione tecnologica (4.0) hanno marginalizzato la cultura e il valore del lavoro che è divenuto una variabile dipendente delle dinamiche economiche. La cultura liberista ha vinto anche a sinistra e le organizzazioni del lavoro sono state lasciate sole dalla politica. Di questo porta responsabilità storica il PD renziano e anche quello pre-renziano.
4. Malgrado sia l’economia senza regole, di stampo liberista, ad aver prodotto la crisi, malgrado la teoria della redistribuzione spontanea del benessere non abbia mai funzionato nei secoli (come dice lo stesso Papa Francesco), ancora i governi dei paesi occidentali (Unione Europea compresa) trascurano il crescere della disuguaglianza e propongono politiche per la crescita basate sull’idea che siano i mercati a indicare e premiare i comportamenti virtuosi e gli stati a doversene ritrarre. Così gli stati, da garanti verso i cittadini sono divenuti garanti verso i mercati: non nuove regole per la globalizzazione ma nuovi dazi per un desueto protezionismo.
5. Non si è ancora ricreata una cultura del lavoro come condizione strategica per la crescita dell’economia, la coesione più equa della società, la maggiore dignità dell’individuo.
6. Nel frattempo, la crisi e l’innovazione hanno trasformato radicalmente la rappresentanza sindacale sia del lavoro che delle imprese, perché hanno modificato la struttura della produzione e delle competenze professionali. Delle tante interpretazioni, quella che mi sembra più convincente parla di fenomeni di polarizzazione: del lavoro (tra alte professionalità e lavori poveri, con scomparsa dell’operaio massa su cui era baricentrata l’azione sindacale), delle imprese (con minor peso dell’industria manifatturiera e maggior rilevanza del terziario nella produzione della ricchezza), della società con impoverimento del “ceto medio”.
7. Fortunatamente sono cresciute di numero e di peso le organizzazioni sociali autogestite, cattoliche e laiche, che esercitano direttamente sul campo (nelle città e nei territori) funzioni di supplenza ai deficit progressivi del welfare e al distacco dei partiti (anche di sinistra) dai bisogni dei cittadini e di chi vuole diventare cittadino con pienezza di diritti e doveri.
Bastano queste prime considerazioni per dedurre che non solo il sindacato, ma anche le altre organizzazioni sociali ed economiche, sono più deboli di prima in quanto meno capaci di rappresentare l’intera filiera del lavoro o del capitale a partire dai luoghi della loro tradizionale presenza. Nello stesso momento le caratteristiche del lavoro (e dell’impresa) si sono talmente modificate che richiedono forme e contenuti nuovi per una loro efficace rappresentanza. Specie per un sindacato che intenda verificare ogni giorno la propria rappresentatività attraverso la contrattazione-concertazione senza trasformarsi in lobby (o in sportello di servizio per i singoli utenti).
L’allontanarsi dei partiti (anche di sinistra) dai bisogni sociali ha fatto sì che si allargasse l’area di non rappresentanza degli interessi collettivi: dei lavoratori, dei disoccupati, dei pensionati, dei cittadini, dei piccoli imprenditori. Sono stati questi vuoti, non riempiti da risposte reali ed efficaci, a lasciar aperto il campo al pensiero demagogico populista che ora è arrivato a governare il Paese, seppure non solo il nostro.
Le specificità prodotte dalla crisi e dall’innovazione si sono mangiate l’inclusione e la solidarietà (lo dimostra anche l’abnorme crescita dei Ccnl firmati dalle neonate organizzazioni “meno rappresentative”).
Se condividiamo questa sommaria fotografia della crisi della rappresentanza politica e sociale (cui potrebbe aggiungersi anche una crisi della rappresentanza istituzionale) non è impossibile individuare alcune scelte strategiche obbligate per le organizzazioni sociali e delle imprese. Vediamone alcune in estrema sintesi.
1. La separazione tradizionale tra la rappresentanza del lavoro (ai sindacati) e la rappresentanza generale (ai partiti) non ha più senso reale poiché non è più il lavoro (e nemmeno l’impresa) discrimine tra la marginalità e la piena cittadinanza.
2. Non arrivo a dire che la divisione tradizionale dei compiti tra sindacati e partiti (ai primi il lavoro, ai secondi la società) non abbia più senso. Né tantomeno che l’incompatibilità tra cariche politiche e cariche sindacali sia superata, ma delle due l’una: o la politica torna a parlare seriamente di lavoro e di diritti di cittadinanza (non di “popolo”) o dovranno essere i rappresentanti dei lavoratori e delle imprese e le organizzazioni sociali a darsi una voce politica più forte e diretta.
3. Per ricomporre la schizofrenia tra problemi dei cittadini ed espressione di voto degli elettori bisogna ricostituire un luogo non virtuale di ascolto, dialogo e mediazione. Per far questo occorrono ancora presenze in “carne ed ossa” nei quartieri, nelle città, nei paesi.
4. Non spetta solo al sindacato, ma anche al sindacato cercare la sintesi migliore tra i diversi soggetti che rappresentano i bisogni sociali e del lavoro. La via più realistica da perseguire potrebbe essere quella di ricostituire una rete di associazioni ed organizzazioni che, partendo dai bisogni, indichino alla politica le priorità del Paese e le vie non demagogiche per soddisfarli.
5. Se non si opera per costruire questa “rete sociale”, nella direzione di una maggiore “cittadinanza” del sindacato, del suo agire contrattuale e della sua forma organizzativa, bisogna pur dire che l’esercito di militanti e dirigenti (di luogo di lavoro, di categoria, confederali, di lega, comunali, provinciali, regionali e nazionali) è sovradimensionato o molto sottoutilizzato.
6. Nello stesso senso, in una prospettiva di maggiore socializzazione e di rete tra diversi soggetti, la separazione tra le grandi sigle sindacali (che firmano comunque insieme gli accordi più significativi) appare sempre più come un retaggio del secolo delle ideologie (che per fortuna o purtroppo non ci sono più). E una rendita di posizione delle attuali burocrazie.
Questa necessaria reimmersione sociale del sindacato non è alternativa all’attività contrattuale classica, ma può migliorarla e trasformarne l’efficacia combinando insieme presenza contrattuale e partecipativa sul lavoro e presenza contrattuale e concertativa sui territori. Poiché la contrattazione nei luoghi di produzione, pur necessaria e indispensabile per recuperare il controllo e la tutela sulle condizioni di lavoro (a partire dalla retribuzione), non è oggi in grado di includere l’intera filiera del lavoro e la catena di produzione del valore.
La contrattazione sociale territoriale conosciuta sino ad ora (circa 1000 accordi l’anno con altrettanti Comuni del Centro Nord) è stata sostanzialmente orientata a meglio distribuire le risorse del welfare per tutelare le fasce più deboli della popolazione ma non in grado di compensare i tagli imposti dall’austerità e riorientare gli indirizzi tradizionali di spesa dei bilanci dei Comuni e delle Regioni.
Ragionare su questi limiti per definire un modello di contrattazione territoriale per lo sviluppo è una delle sfide strategiche cui guardare.
Ma su quali contenuti la contrattazione sindacale e la rete di rappresentanza sociale dovrebbero muoversi?
Non sembri paradossale ma la risposta a questa domanda è più facile di quanto non si pensi. Perché esiste già una piattaforma largamente comune (e sottoscritta) da sindacati, associazioni di impresa, organizzazioni sociali. È l’agenda Onu per la crescita sostenibile 2030 e la sua declinazione italiana operata dall’Asvis. Basta infatti scorrerne obiettivi e traguardi per rendersi conto che è possibile una nuova sintesi tra bisogni del lavoro, bisogni sociali e bisogni del paese declinati secondo i criteri di una sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Da qui si può trarre una “piattaforma” di priorità condivisa dalla “società civile” che determini un nuovo patto tra sindacato e imprese ma anche tra forze economiche e comunità. Tale piattaforma andrebbe contrapposta urgentemente al nazional-populismo leghista, all’improvvisazione pentastellata e agli ultimi vagiti del partito democratico.