Prende il via la prima edizione del Premio Letterario Giuseppe Di Vittorio, un’iniziativa voluta dall’Iress Lazio insieme alla Cgil Roma e Lazio e la Fondazione Di Vittorio con l’obiettivo di dare voce ad autrici e autori che si siano distinti nel raccontare il mondo del lavoro e le tante sfumature che lo contraddistinguono. Un’occasione preziosa per riavvicinare il mondo della cultura a quello del lavoro in un’epoca contrassegnata dall’urgenza di dare voce alla working class. A parlarne in questa intervista è il presidente dell’Iress del Lazio, Eugenio Ghignoni.
Come e perché nasce questa iniziativa?
Il premio letterario Giuseppe Di Vittorio, che noi stessi abbiamo definito della working class, si riferisce alla letteratura del mondo del lavoro e l’esigenza è legata a ridare visibilità sociale, culturale, non solo sindacale, al mondo del lavoro. Sul piano culturale esistono oggi delle esperienze di letteratura working class, che tuttavia non emergono mai nella diffusione più ampia della letteratura e in quello che è il discorso ufficiale sulla letteratura, così come nei media. C’è una squalificazione sociale del mondo del lavoro e noi vogliamo rispondere a tutto questo rilanciando quella che peraltro è una grande tradizione del nostro Paese sui temi della letteratura del lavoro.
Nonostante questa tradizione, però, in Italia del lavoratore-scrittore si sono perse le tracce. Perché?
L’idea è sicuramente quella di pensare al lavoratore-autore. Ma innanzitutto si vuole rovesciare il paradigma della valutazione circa l’attinenza ai temi del lavoro: oltre che alla qualità letteraria di un’opera, anziché affidarla al mondo degli addetti ai lavori, vogliamo invece affidarla a chi di lavoro vive e quindi cercare di individuare quelle opere che fanno scattare la scintilla dell’identificazione e poter dire: “Ecco, quest’opera sta parlando di me”. O meglio: “Quest’opera sta parlando di noi”. Da qui nasce anche l’idea della giuria popolare. Noi cercheremo di promuovere le esperienze che sono di lavoratori-autori, tant’è vero che, specificamente per quanto riguarda la sezione dei racconti brevi inediti, abbiamo pensato ai laboratori di scrittura creativa: si diventa scrittrice o scrittore quando dentro scatta una molla che fa partire la voglia di scrivere, ma a volte questa voglia è frenata da l’idea di non avere tutti gli strumenti. Per questo fa parte dei nostri compiti dare gli strumenti a quelle lavoratrici e lavoratori che abbiano qualcosa da raccontare, in modo che tutti coloro e tutti coloro che vogliano cimentarsi con il premio letterario nella sezione dei racconti brevi inediti possano farlo, ma con un laboratorio di scrittura creativa
Come raggiungerete i potenziali partecipanti? Ci saranno delle campagne sui luoghi di lavoro?
Sicuramente faremo delle presentazioni del premio nel mese di gennaio, ovvero nel momento in cui uscirà il bando, ma informeremo anche attraverso i canali della Cgil e di altre realtà associative e delle istituzioni culturali vicine alla Cgil e al mondo del lavoro, cercando di raggiungere più aspiranti autori e autrici possibili. Al tempo stesso vogliamo sensibilizzare chi già di lavoro scrive a partecipare al nostro premio letterario per quanto riguarda la parte dei romanzi editi.
Giuseppe Di Vittorio parlava di cultura come arma e lei stesso definito questa iniziativa “chiamata alle arti”. Crede che offrire la cultura come arma ai lavoratori sia un valido strumento di lotta?
Assolutamente sì. Del resto non possiamo non pensare come negli anni in cui il movimento operaio conquistava lo Statuto dei lavoratori, la scala mobile e nel Paese si realizzavano tante conquiste anche sul piano delle libertà civili, tutto questo era accompagnato da tanti strumenti artistici che affiancavano il percorso, anche indipendentemente dalla volontà dei singoli autori delle opere, perché c’era una realtà sociale che se ne riappropriava.
Nonostante la nostra tradizione di letteratura industriale, come mai nella contemporaneità più stretta il lavoratore non ha tenuto in considerazione la cultura come strumento di espressione e di lotta?
Ciò è avvenuto contestualmente alla grande trasformazione dei primi venti anni di questo secolo, che ha visto un enorme spostamento dei rapporti di forza dal lavoro alla rendita e al profitto. E questo non poteva non riflettersi anche sul piano sociale e culturale. Del resto assistiamo a un mondo in cui il lavoro è considerato quasi un disvalore, a meno che non produca arricchimento individuale per il soggetto che lavora. Queste cose scavano nel profondo inconscio collettivo e segnano anche una cifra culturale della nostra epoca. Noi vogliamo provare a invertire tutto questo esattamente come vogliamo provare a modificare i rapporti di forza più generali nella società a favore del lavoro, o quantomeno a fargli risalire qualcuna delle posizioni che pure ha avuto nella seconda metà del secolo scorso.
Quindi oggi chi sono i destinatari di questi racconti? Chi o cosa si vuole cambiare con questa letteratura?
Innanzitutto il primo passo è quello di riuscire a passare dall’io al noi. Il mondo del lavoro deve essere inteso non più come tanti singoli individui che lavorano, bensì come un collettivo può essere capace di modificare le condizioni di tutte e di tutti e di restituire dignità e diritti al lavoro. Tutto questo non è scontato e lo vedremo anche dal taglio dei racconti che ci arriveranno, cioè quanto parleranno di storie individuali, di sconfitte, di solitudine e quanto riusciranno ad approcciare il tema del percorso collettivo, di ricostruzione di un noi. Questo sarà uno dei risultati di particolare interesse del concorso, la cifra politica e sociologica che emergerà da questi questi racconti.
La letteratura della working class può essere considerata uno strumento di partecipazione sindacale o colmare in qualche modo i vuoti del sindacato?
Più che colmare i vuoti del sindacato noi pensiamo di completare un percorso e più che di partecipazione sindacale parlerei di partecipazione democratica, di cui quella sindacale è una delle espressioni. In questo caso siamo sul terreno della democrazia del lavoro più complessiva, in cui però il singolo si rapporta come cittadino-lavoratore prima che lavoratore sindacalizzato. C’è un una dimensione di un noi che è pre-sindacale, nel senso che va oltre la dimensione stretta di quel sindacato, di quella lotta, di quella iscrizione. Noi pensiamo che tutto questo, naturalmente, sia anche un percorso che poi aiuta la crescita delle organizzazioni sindacali, in questo caso della Cgil che abbiamo sempre concepito come un grande strumento di trasformazione della società e un grande strumento di costruzione della libertà di chi lavora. C’è il legame profondo anche con gli altri strumenti più generali, meno sindacali, ma sicuramente altrettanto connessi per altri modi e per altre strade alla funzione del lavoro.
Secondo le statistiche l’Italia è un Paese che non legge più. Non si corre il rischio che l’iniziativa finisca per restare chiusa nel solito circuito dei pochi?
Vogliamo anche dare un contributo a invertire questa tendenza, far sì che si ritorni anche a leggere, perché senza lettura è difficile che ci sia cultura. Sicuramente ci sono anche altri altri strumenti, però comunque la lettura rimane uno strumento insuperabile nella conquista culturale. E la cultura, come diceva Di Vittorio, è un’arma per l’emancipazione delle classi subalterne. È questo l’elemento che ha veicolato la scelta dell’arte della letteratura. Nondimeno stiamo pensando anche ad altre iniziative: ad esempio, guardiamo con interesse al mondo della cinematografia, della pittura, della poesia, quindi in futuro cercheremo di capire come ampliare questa chiamata alle arti.
L’Iress si occupa di ricerche economiche, storiche e sociali. Questa iniziativa può valere anche come strumento di ricerca?
Come dicevo prima, abbiamo ragionato su quanto i racconti ci consentiranno un approfondimento parallelo a quello dell’indagine che sta svolgendo la Fondazione Di Vittorio, con la quale noi collaboriamo, sulle condizioni di vita e le aspettative delle lavoratrici e dei lavoratori italiani. Avere anche un campione di racconti scritti da lavoratrici e lavoratori che parlano della loro condizione in qualche modo contribuirà a completare, su un altro versante, questa ricerca. Come Iress ci siamo posti fin dall’inizio l’obiettivo di svolgere una funzione di Casa della Cultura, oltre che quella di un istituto di ricerca vero e proprio, perché c’è questa necessità, c’è questo vuoto che sentivamo la necessità di riempire. Chiunque vive nel mondo del lavoro sa che non è fatto solo di persone che ovviamente vivono di lavoro e parlano esclusivamente di lavoro dal punto di vista sindacale, ma molto spesso parlano anche di altri aspetti e ne scrivono. Molti si cimentano con questo strumento. Quindi c’è una domanda, ma c’è anche una domanda di buona lettura e buone arti in un momento in cui ce ne sono in giro poche attinenti alla realtà di chi lavora.
Elettra Raffaela Melucci