Spesso si discute su strumenti politici e sociali da adottare sui temi della situazione di povertà degli italiani usando due termini che è utile distinguere. La povertà relativa figura sempre più come un indicatore di disuguaglianza percentuale nello standard di vita medio tra i redditi piuttosto che di povertà effettiva, e povertà relativa è la misura di povertà adottata come standard di riferimento dall’Unione Europea. Sono relativamente poveri gli individui il cui reddito è inferiore a una frazione del reddito medio o mediano della popolazione di riferimento. Secondo Eurostat, sono povere tutte le famiglie il cui reddito (per adulto equivalente) è inferiore al 60 per cento del reddito mediano. Le variazioni dell’incidenza della povertà relativa, ossia della quota di individui poveri sul totale della popolazione, dipendono quindi non solo dall’eventuale peggioramento (o miglioramento) delle condizioni di vita delle famiglie prossime alla soglia di povertà, ma anche da variazioni del reddito medio nazionale ed è bene sapere che l’Italia è l’unico fra i Paesi europei che usa il parametro della povertà assoluta, insieme con quello della povertà relativa, per valutare il peso di questa condizione e il suo andamento nel tempo.
Si intende per povertà assoluta il concetto di bisogni fondamentali, tutt’altro che condiviso e Istat “si riferisce all’incapacità di acquisire i beni e i servizi necessari a raggiungere uno standard di vita ritenuto minimo accettabile per evitare forme di esclusione sociale nel contesto di appartenenza”. La soglia assoluta è, infatti, identificata dal valore di un paniere di beni e servizi ritenuti essenziali nel contesto sociale di riferimento. La composizione e il valore del paniere mutano ovviamente nel tempo, ma non in ragione della variazione del reddito medio nazionale, quanto piuttosto delle variazioni dei prezzi, delle preferenze individuali e sociali e della struttura socio-demografica. La soglia di povertà assoluta dell’Italia odierna è, variato il valore della lira (oggi euro), perché si è modificato il paniere di beni e servizi ritenuti essenziali e perché sono mutate le esigenze nutrizionali degli italiani. ll dato nazionale nasconde ampie disparità regionali. Sebbene i dati più recenti confermino quanto già riscontrato dall’Istat, la prospettiva storica evidenzia un aumento, apparentemente inarrestabile, del rapporto tra l’incidenza della povertà al Sud e al Nord, ossia dell’extra rischio di povertà che deve sostenere chi decida di emigrare dal Nord al Sud d’Italia. La povertà assoluta è, indubitabilmente, una questione meridionale e interpretare i dati sulla povertà non è semplice. Rivalutare una soglia relativa, aggiornandola per il solo aumento del costo della vita, equivale a tenere immobile la soglia di povertà. Mentre utilizzare una soglia della povertà relativa che si aggiorna automaticamente al variare della distribuzione del reddito è una prassi radicata nel nostro paese, ma non consente di monitorare con efficacia l’evoluzione del fenomeno, proprio per la sua eccessiva mobilità. Sul piano concettuale e su quello empirico sembra dunque preferibile seguire la dinamica della povertà assoluta. Nella definizione della linea povertà assoluta messa a punto dall’Istat rientrano non solo beni di sussistenza (cibo, vestiario e abitazione), ma anche tutti quei beni e servizi che le famiglie italiane, dati gli stili di vita prevalenti, sono abituate a ritenere essenziali Quindi non solo cibo, salute e abitazione, ma anche altre dimensioni come l’istruzione, l’accesso alle cure mediche, al mercato del lavoro, le speranze di vita e la mortalità infantile. La definizione che è adottata dalle Nazioni Unite definisce infatti la povertà assoluta come una “deprivazione grave dei bisogni umani di base, incluso cibo, acqua pulita, infrastrutture igieniche, salute, abitazione, istruzione e informazione. In questa prospettiva, l’individuazione della povertà richiede necessariamente la valutazione dei bisogni e delle capacità, non astratti ma concretamente legati alla disponibilità di beni e servizi, e alla capacità dei soggetti di avervi accesso. Sono soprattutto i beni pubblici e i servizi a differenziare fortemente le fasce di popolazione, per cui nella povertà assoluta possono ricadere anche lavoratori poveri, o famiglie e individui che a parità di condizioni economiche vivono in aree peggio assistite da servizi pubblici inefficienti o carenti.
Naturalmente, il problema di come includere il valore dei beni pubblici resta un nodo complesso, ma il caso della Sanità in Italia è ormai un esempio lampante di come le possibilità di accesso al servizio siano divenute una discriminante. Occorre osservare che la metodologia Istat adotta un “paniere” di beni considerati essenziali, continuamente aggiornati, più ampio di quello di sussistenza, dunque pluridimensionale, definito nello spazio e non solo nel tempo, e non legato solo alla componente alimentare come quello USA, l’unico Stato sviluppato che adotta il solo indice di povertà assoluta. Poiché lo stesso Istituto Centrale di Statistica comunica che “la metodologia di stima di questo indicatore, essendo affetta da un naturale processo di obsolescenza, richiede un periodico aggiornamento”, e che a questo scopo è stata istituita una commissione che ha il compito di analizzare la metodologia, verificarne la validità nella variabilità del contesto economico-sociale, e proporre modifiche, ebbene è verosimile e augurabile che si proceda anche nella direzione della individuazione di contesti omogenei, per aree similari, in cui sia verificata l’analisi della disponibilità e dell’uso dei beni pubblici essenziali.
Alessandra Servidori