“Positivi” il libro scritto da Maria Emilia Bonaccorso e Massimo Cozza parla di noi e della nostra vita ai tempi della pandemia. Un tempo rallentato e di attesa in cui siamo stati “gettati” per caso, nell’incredulità che questo evento potesse toccare in sorte proprio a noi.
Il lungo lockdown ha messo a dura prova la nostra esistenza, colpendo più duro i meno dotati del capitale che conta: le risorse economiche ma anche e forse soprattutto quelle esistenziali e di relazioni (la famiglia, gli amici, le reti informali).
Anche di fronte al coronavirus, una forma elementare di vita dalle dimensioni di 40-120nm, fatto solo di una singola catena di RNA e di un envelope proteico, le consuete differenze di classe e di status hanno lasciato una scia di dolore e di sofferenza più intensa nei meno fortunati; accanendosi con maggiore virulenza contro chi ha passato il suo tempo costretto in piccole abitazioni, scarsamente illuminate, prive di terrazze e balconi e spesso senza il supporto della rete, in cui navigare e mantenere i contatti col mondo “di fuori”.
Contro questo destino, tuttavia, gli autori ci spiegano che molto è stato fatto e che ancora di più si può fare. I nostri servizi di supporto agli adulti e ai bambini in difficoltà hanno fatto la loro parte e a nessuno, che abbia chiesto aiuto, è stato negato un supporto psicologico e materiale.
La lunga tradizione di interventi territoriali in tema di salute mentale, di cui Massimo Cozza è un esperto, essendo un importante psichiatra italiano, non ci ha trovati impreparati e non ha condannato all’isolamento nessuno o quasi nessuno.
Certo rimane quell’area ampiamente rappresentata dei bisogni inespressi, laddove servirebbero politiche attive e non di semplice attesa. In quel campo bisogna rendere più incisivo il nostro intervento, rafforzare il nostro Servizio Sanitario nazionale e fare tesoro dall’esperienza maturata in questi mesi; un lavoro già fatto che dovrà comunque trovare una sua sistemazione, anche in termini scientifici, per essere momento di riflessione e stimolo a migliorare e che soprattutto dovrà continuare ad essere supportato dall’ intervento dello stato.
La pandemia, infatti, ha chiarito due questioni che sono state fatte oggetto di pesanti mistificazioni, di due veri e propri “miti razionali”, per usare un concetto della sociologia neo-istituzionalista; una strategia comunicativa che consiste nel creare false credenze supportate da complessi ragionamenti senza alcuna reale aderenza con la realtà.
Il primo di questi miti ha riguardato i “costi eccessivi” della sanità e la necessità di implementare quelle politiche, giustamente definite nel libro, di stampo neoliberista. Il nostro Ssn è stato deprivato col tempo di ingenti risorse e ha subito un intenso ridimensionamento dei servizi territoriali.
Il sistema ha complessivamente tenuto, ma la strategia di confinamento dell’epidemia, nel luogo più proprio, il territorio, si è scontrata col limite di avere un servizio delle cure primarie frammentato e disorganizzato.
Una grave carenza che ha portato a un ritardo nel contenimento del contagio specie nella regione Lombardia e alla morte di centinaia di medici, mandati non al fronte (per seguire il ragionamento del libro) ma a prestare il proprio servizio senza adeguati mezzi di protezioni e chiare indicazioni operative.
Il secondo di questi miti riguarda invece il ruolo del personale e della scarsa efficienza del personale pubblico. Un concetto rilanciato anche pochi giorni orsono da un illustre editorialista del Corriere della Sera, forse più interessato a suscitare emozioni che riflessioni sensate.
Nel libro viene ricordata la foto dell’infermiera che si addormenta sul tavolo, stremata dalle troppe ore di lavoro. Ebbene quell’immagine non rappresenta l’eccezione ma è stata la regola quotidiana nelle centinaia di strutture che hanno curato le migliaia di pazienti affetti da Covid 19.
Un esercito silenzioso di medici, infermieri, tecnici ed amministrativi ha dimostrato, molto più dei soliti pennivendoli, accomodati loro su comode poltrone, di come i dipendenti pubblici non siano una zavorra ma la vera risorsa del nostro Servizio sanitario nazionale. Una risorsa che merita rispetto, supporto materiale, morale e in quest’ultimo caso talvolta anche psicologico.
Molti di noi dunque sono diventati “positivi” al virus, ammalandosi di Covid-19 e invertendo così la polarità valoriale del termine. Il “positivo” in questo caso si è trasformato in un dis-valore laddove prima rappresentava l’apertura dell’essere alla vita e alle sue possibilità: il progetto a cui siamo chiamati e la cui realizzazione ci dà forza, fugando il rimorso e il senso di colpa che ci assale nell’inerzia.
Un‘inerzia che non è l’otium laudabile degli antichi romani, come ci spiegano gli autori. La cura del sé, il “regime” dei saggi latini, infatti passa anche attraverso la riflessione, il ripiegarsi su sé stessi, il ritirarsi dalla frenesia delle quotidianità. Forse questo otium, è stato, per alcuni il lascito inaspettato del lungo ritiro in cui siamo stati costretti. Per alcuni, ma certo non per tutti, e non per i più fragili, per i deprivati, per i più poveri di relazioni sociali che invece hanno sofferto di una solitudine ancora maggiore come gli anziani ospitati in Rsa.
Emblematica, in questo caso la lettera scritta da un anziano ai suoi nipoti in una sorta di testamento-testimonianza in veste di commiato e monito per gli altri pubblicata da “Interris, La voce degli ultimi”, il quotidiano digitale fondato da Don Aldo Buonaiuto.
Gli autori la riportano integralmente senza commentarla, ma condividendola fino in fondo con il suo accorato grido di dolore e l’invito finale a non commettere l’errore di isolarsi dal mondo scegliendo di chiudersi nelle prigioni dalle mura dorate.
“Ma vorrei che sappiate tutti che per me non dovrebbero esistere le case di riposo, le rsa, le “prigioni” dorate e quindi, si, ora che sto morendo lo posso dire: mi sono pentito. Se potessi tornare indietro supplicherei mia figlia di farmi restare con voi fino all’ultimo respiro, almeno il dolore delle vostre lacrime unite alle mie avrebbero avuto più senso di quelle di un povero vecchio, qui dentro anonimo, isolato e trattato come un oggetto arrugginito e quindi anche pericoloso. Questo coronavirus ci porterà al patibolo ma io già mi ci sentivo dalle grida e modi sgarbati che ormai dovrò sopportare ancora per poco… l’altro giorno l’infermiera mi ha già preannunciato che se peggioro forse mi intuberanno o forse no. La mia dignità di uomo, di persona perbene e sempre gentile ed educata è stata già uccisa.
Il libro però è un invito alla speranza, una proposta di viaggio appagante e allora il termine “Positivi” deve riprendersi il suo significato originale e non essere confinato al risultato di un test di laboratorio che annuncia malattia.
La salute, diceva Georges Canguilhem, è la capacità di darsi nuove norme, di superare le difficoltà che si incontrano inevitabilmente nella vita di tutti i giorni; è una nuova normatività. La salute non è data per sempre; è un bene da preservare e mantenere e che pone delle sfide con cui confrontarci con positività
La pandemia, ci spiegano gli autori, ha creato una nuova comunità di persone che non hanno ceduto alla solitudine dello starsene in casa, all’esclusione dell’altro come opzione da praticare per sempre.
Questo pericolo ha lambito le fasce più deboli, i bambini, gli adolescenti, costretti a insolite frequentazioni con gli adulti e gli stessi genitori; una specie di rottura, talvolta conflittuale con la consuetudine delle fugaci condivisioni di un tempo limitato in famiglia; quelle ore passate insieme spesso gravate dalla stanchezza per la fine del lavoro ma di breve durata.
Il lockdown ha invece creato una nuova prossemica, accorciando le distanze e dilatando all’infinito i tempi dello stare insieme.
Questo nuovo modo di stare insieme ha interessato anche le coppie che si sono ritrovate a condividere lunghe giornate e a dovere reinventare delle pratiche di ascolto reciproco, talvolta desuete perché impoverite dall’usura del tempo.
Anche su questo gli autori ci spiegano che la nostra comunità ha retto e che la prova è stata ampiamente superata. Positiva dunque la nostra vita in tempo di epidemia tornata ristretta nostro malgrado.
Nel libro tuttavia c’è molto di più; il ruolo dell’informazione e delle fake news, il ruolo degli scienziati e della comunicazione scientifica, il ruolo dei mezzi di informazione e preziosi suggerimenti per non cadere nelle mani dei falsificatori seriali di verità. In questo campo decisamente di rilevo la lunga esperienza giornalistica di Maria Emilia Bonaccorso che, dal privilegiato punto di osservazione dell’Ansa, ha potuto monitorare, leggere e scrivere la realtà del nostro paese, consegnandoci sempre un quadro fedele e veritiero delle opzioni e delle forze in campo.
Ulteriori contributi di rilevo arricchiscono il testo: la prefazione di Piero Chiambretti è l’intensa testimonianza di chi si è ammalto e di chi ha perso in pochi giorni una familiare carissimo. Un bagno di realtà che ci fa ricadere nell’angoscia di chi ha visto la forza distruttiva del virus, ma che non ci lascia senza speranza
“Questo libro” nelle parole dell’autore -, “cerca di dare un senso a tutta questa confusione, provando a vedere il bicchiere mezzo pieno, spiegando il prima e avanzando il dopo, cercando di spiegare perché siamo diventati altri che non eravamo, ma che cerchiamo disperatamente di tornare noi, magari migliori.
Altrettanto importanti i contributi di Maria Rita Parsi dal titolo “Per i minori e gli adolescenti” e di Massimo Biondi dal titolo “Pandemia, stress e salute mentale”.
Del primo coautore riporto un passo dedicato alle famiglie disfunzionali che ci riporta i fragili e che segna un punto di analisi e lettura di quanto è avvenuto tra le private mura domestiche.
“Per quei minori che, al contrario, vivono in “Famiglie Disfunzionali”, segnate da problemi di convivenza, conflitti preesistenti, gravi o nuove difficoltà economiche, malattie e crolli psicologici, la costrizione a stare tutti insieme, a casa, può essere vissuta dai bambini, dai preadolescenti, dagli adolescenti, come un’autentica “carcerazione” che, nella fase due, potrebbe favorire fughe incontrollate e illeciti intrattenimenti. Soprattutto, poi, se in quelle famiglie “Disfunzionali”, si respirano i miasmi del conflitto, della disgregazione e, perfino, dell’odio tra i genitori. Tutto questo, infatti, destabilizza i minori e crea una minacciosa, incandescente atmosfera che può portarli a deprimersi o, al contrario, a ribellarsi con aggressività.
Di Massimo Biondi voglio riportare la parte della sua lezione magistrale dedicata al significato che in termini psicologici può assumere un evento stressante come un’epidemia:
“Una pandemia, come tutti gli eventi-catastrofe, ha un percorso oggettivo di evoluzione temporale dove si possono riscontrare in linea di massima tre fasi. Ognuna ha sue caratteristiche, stati mentali, comportamenti, bisogni, possibili risposte, precisi. Esse coincidono con quanto descritto nel modello dello stress e di adattamento a eventi esistenziali di maggiore gravità: la prima è una fase di allarme, della durata di giorni o 2-3 settimane; la seconda è una fase di resistenza, che può durare qualche mese; la terza è una fase di esaurimento e/o ricostruzione, nei mesi (o anni nei casi peggiori) successivi. Conoscere la reazione psicologica di stress, le sue fasi e le sue ‘leggi’, anche nel caso dell’evento-pandemia, può essere una risorsa decisiva per essere preparati, avere una mappa e orientarsi, prevedere bisogni e stabilire azioni”.
Un importante intervento che si conclude con un invito a fare comunque tesoro di quanto avvenuto:
“Conoscere la reazione psicologica di stress, le sue fasi e le sue ‘leggi’, anche nel caso dell’evento-pandemia, può essere una risorsa decisiva per essere preparati, avere una mappa e orientarsi, prevedere bisogni e stabilire azioni”.
Segnalo infine a chiusura del libro un utile appendice sugli stereotipi e i falsi pregiudizi verso la salute mentale ed infine l’elencazione di indirizzi utili.
Roberto Polillo