Recentemente il governo ha lanciato l’idea di una possibile privatizzazione del sistema portuale italiano. La risposta del sindacato non si è fatta attendere e in particolare la Uiltrasporti si è detta da subito contraria alla proposta. Abbiamo intervistato il segretario generale, Marco Verzari, per approfondire il tema e per capire l’attuale stato di salute del nostro sistema portuale.
Segretario Verzari, come sindacato sostenete che privatizzare il sistema portuale sarebbe un danno per il nostro paese. Per quale motivo?
Per capire le conseguenze di una simile scelta è necessaria una premessa su come funzionano i porti. È un sistema che muove il 60% dei 600 miliardi di export italiano. Il trasporto merci via mare ammonta a 254 miliardi, il 37% del totale di tutti i vettori di traporti in Italia. Se parliamo del peso totale dei container, il divario con gli altri porti del nord Europa, nonostante le guerre, è in costante diminuzione. La crescita è da sempre evidente ed è un segnale che il sistema che funziona, che genera Pil, è un sistema sano. Quando è stata fatta la legge 84 del ‘94, che è la norma generale che regola il settore poi rivista con la legge del 2016, abbiamo aperto al mercato per quanto riguarda i servizi interni. Ma abbiamo sempre sostenuto che il sistema portuale è un asset, non un servizio, ed è fondamentale per il paese, quindi deve mantenere il suo carattere pubblicistico.
Quindi un asset così strategico, e che funziona anche molto bene, non ha senso cederlo?
Esatto. Oltretutto, in questo caso si vuole vendere solo per fare un po’ di cassa nell’immediato, ma non c’è una visione di lungo periodo o una comprensione di come questo settore, già fortemente regolamentato che garantisce concorrenza e lavoro, possa essere sviluppato. E poi da che mondo e mondo non si privatizza una attività sana, è inconcepibile. Potrei capire se fosse un settore in crisi, ma non è questo il caso. Inoltre, ripeto, è un settore strategico, privatizzarlo significherebbe creare il caos.
In che senso il caos?
L’attuale sistema portuale ha raggiunto nei decenni un equilibrio tra lavoro, concorrenza leale e democrazia. Lavoro perché è trasparente e tutelato, il rischio di dumping è nullo, e nessun privato ci garantirebbe un simile livello di garanzie contrattuali e occupazionali. Abbiamo visto che fine fanno i lavoratori quando si privatizza e quando il governo si fa garante: cassa integrazione. Inoltre la contrattazione è più agevole rispetto al confronto con proprietà straniere. Concorrenza leale, infine, perché il sistema pubblico la governa, evitando i monopoli e garantendo un fattore di controllo della democrazia.
Uno scenario da evitare insomma
L’Italia siede al G7, ma quanta industria è rimasta nelle nostre mani? Come sindacato la nostra priorità è la salvaguardia del lavoro, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. E questo passa anche per la salvaguardia pubblica di asset strategici. Noi nelle nostre proposte andiamo proprio in antitesi con queste idee di privatizzazione. Perché ogni porto ha delle sue esigenze, diverse rispetto ad altri porti e serve semmai una maggiore capacità amministrativa di questo settore.
Quindi che cosa proponete di fare?
Dobbiamo governare questi aspetti facendo sistema con un coordinamento centrale dello Stato italiano, nel senso di costruire un’autentica politica industriale e strategica, coinvolgendo attivamente le parti sociali maggiormente rappresentative dei lavoratori, e insieme portare avanti un piano nazionale, immettendo maggiori risorse, per fare ancora più grande e solido il sistema portuale e il Paese nel suo insieme. Investire nei porti significa portare ulteriore ricchezza e beneficio nei decenni che verranno, sia alle casse statali che al sistema Italia in termini di lavoro, logistica, economia, industria, energia, geo-politica. Serve una autorità di sistema che decida non tanto la quantità di lavoro ma che governi il lavoro in entrata.
Quali altri aspetti sono migliorabili?
Sicuramente occorre limitare fino ad azzerare gli incidenti sul lavoro. Non è accettabile l’idea di morire perché si sta andando a lavorare, è una cosa vergognosa. Non siamo più all’eccezionalità ma alla normalità con oltre mille morti all’anno. Quindi aumentare gli ispettori portuali sarebbe una operazione quantomeno doverosa. Inoltre è necessario inserire la classificazione di lavoro usurante in determinate tipologie di lavoro nei porti. Oggi questa classificazione non esiste, e quindi ci troviamo con lavoratori, avanti con l’età, impiegati in lavori pesanti, ripetitivi e pericolosi che non possono più fisicamente sostenere, con tutti i rischi annessi di salute e incidenti. Esiste in realtà un decreto attuativo, che il sindacato aveva predisposto con il governo, ma che non è mai stato emanato, per il Fondo di incentivazione all’esodo: questo consentirebbe di fare intese proprio per un ricambio generazionale e salvaguardare la salute del personale più critico e anziano.
Avete fatto altre proposte al governo sulla sicurezza?
Abbiamo anche chiesto di valutare insieme al governo degli interventi di modifica dei decreti 271 e 272 del ’99 che riguardano la materia di sicurezza marittima e portuale. Queste integrazioni che vorremmo inserire permetterebbero di valutare con maggiore precisione quando, dove e come debbano essere fatti i ricambi di personale, per avere la possibilità di avere nei porti una forza lavoro sempre adeguata alla mansione svolta.
Insomma, è nell’interesse del paese, oltre che dei lavoratori portuali, che il sistema rimanga in mano pubblica?
Certamente. Questi sono gli scenari che l’Italia si merita, questo è il nostro sistema portuale, che ripeto non è perfetto ma è da migliorare e semmai potenziare come le ho descritto. Altro che svendere i gioielli di famiglia a dei privati stranieri per guadagnare due spicci, e poi chi si è visto si è visto.
Emanuele Ghiani