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C’è una lapida di pietra bianca sulla spianata di Portella della Ginestra dove è incisa una poesia in dialetto di Ignazio Buttitta, marchiata con i caratteri rosso vivo: “U me cori doppu tantanni è a Putedda e’ nta petri e nto sangu di cumpagni ammazzati”. Dopo vent’anni, i tre leader sindacali confederali Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo hanno deciso di tornare proprio a Portella, sulle montagne grigie di Palermo, a celebrare quest’anno il Primo maggio.
Portella è un luogo della memoria collettiva, quasi di culto per i siciliani. Qui a distanza di settanta anni la ferita rimane ancora aperta. Uno degli ultimi sopravvissuti della strage del primo maggio 1947, Mario Nicosia, amava ripetere agli studenti che “il cinquanta per cento di lotta alla mafia l’abbiamo fatto noi, il restante cinquanta è compito vostro”. Nicosia è morto l’anno scorso a 91 anni. Il suo più grande rammarico è stato non arrivare a celebrare il 70esimo anno dalla strage il Primo maggio. Per il resto, ha lottato fino all’ultimo per fare conoscere la verità. Aveva 25 anni quando riuscì a sfuggire ai colpi degli uomini del bandito Salvatore Giuliano contro i contadini che per la festa del lavoro si erano riuniti davanti al “Sasso di Barbato”. Nicosia vide cadere attorno a sé tanti compagni ma anche donne e bambini. Si trovava accanto a Giorgio Cusenza, una delle vittime colpite dal fuoco e tornò a casa con la bandiera del sindacato insanguinata.
Quel giorno a prendere la parola sarebbe dovuto essere un prestigioso leader comunista, Gerolamo Li Causi. Ma Li Causi aveva fatto sapere che era impegnato in un’altra manifestazione e non sarebbe intervenuto. Al suo posto era stato chiamato un giovane sindacalista, Francesco Renda. Ma proprio quel Primo maggio a Renda si era rotta la moto nei pressi di Altofonte e così ad esser interrotto dagli spari, dal sangue e dalla morte si trovò un povero calzolaio, Giacomo Schirò, segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato. Alla fine si contarono 11 morti (due erano bambini) e 27 feriti. Ma Nicosia, protagonista delle lotte contadine degli anni Cinquanta, non fu mai sentito, come del resto tanti altri testimoni, al processo di Viterbo concluso con la condanna degli organizzatori e degli esecutori mentre non sono stati mai individuati i mandanti. Portella della Ginestra fu la prima strage di Stato italiana. Una strage che Leonardo Sciascia battezzò come “l’Italia delle menzogne”.
Nonostante siano stati scritti fiumi di inchiostro e di parole su quel Primo maggio di settant’anni fa, la verità non è mai venuta a galla. Anzi, tanti rimangono ancora i segreti ed i misteri di quel capitolo doloroso della storia siciliana. “Una cosa è certa: la strage fu consumata dopo che il grande movimento di contadini contribuì a ribaltare il risultato elettorale in Sicilia per le elezioni per la Costituente assicurando al Blocco del popolo una grande vittoria”, è stata sempre la tesi di Emanuele Macaluso, storico dirigente del sindacato e del Pci, che oggi a 92 anni lucidamente portati è tra i pochi sopravvissuti di quella stagione politica e sociale. “Agrari, mafiosi e politici non tollerarono la cosa e incaricarono la banda di Salvatore Giuliano di fare quel che ha fatto a Portella della Ginestra. Punto”, ha sempre tagliato corto Macaluso.
Ma nel corso dei decenni hanno continuato ad accavallarsi ipotesi, congetture e ricostruzioni. Ognuna con le proprie verità, frutto anche di letture appassionate, talvolta parziali, talvolta interessate dei fatti. Tra i partecipanti alla manifestazione di quel Primo maggio del 1947 c’è chi asserisce di aver sentito alcuni giorni prima mormorare a Piana degli Albanesi una frase premonitrice : “Parteciperete cantando, tornerete piangendo”.Altre ricostruzioni hanno ipotizzato che i colpi mortali siano stati esplosi da personaggi mescolati tra la folla e non dalle alture che circondano Portella.
Qualcuno ha messo in campo l’ipotesi che in realtà fosse stata la mafia per far ricadere la colpa su Giuliano, diventato ormai troppo ambizioso ed ingestibile. Le zone intorno a Portella erano attraversate da un’antica tradizione rossa e di lotte per la terra che vedevano contrapporsi mafia e movimento contadino. Nell’immediato dopoguerra, nei latifondi dei grandi proprietari terrieri, cominciò uno scontro durissimo per la decisione che fu presa a Roma dal governo di abolire la mezzadria. La reazione dei contadini fu immediata: occuparono le terre dei proprietari e questo provocò gravi conseguenze che si trasformarono in veri e propri scontri a fuoco. Placido Rizzotto, Nicolò Azoti, Accursio Miraglia sono alcuni dei sindacalisti che pagarono con la propria vita la scelta coraggiosa di appoggiare le rivendicazioni dei contadini affamati.
Ed è in questo caotico agitarsi tra banditismo, legami mafiosi e pretenziosità politica che si inserisce la strage di Portella, condotta dagli uomini di Giuliano con ferocia e per ragioni che oggi possono apparire fuori dal clima politico del dopoguerra e lontani dall’ “humus” della società siciliana dell’epoca. Sta di fatto che Gaspare Pisciotta, cognato e poi assassino del bandito Giuliano, nel controverso processo di Viterbo diede volutamente versioni confuse, contrastanti, intese a coinvolgere più gente possibile per scompaginare meglio le acque. Perché lo fece? Chi voleva proteggere o incastrare? Mario Scelba, chiamato il giorno dopo gli avvenimenti a rispondere davanti al’Assemblea Costituente dichiarò che non si era trattato di una strage politica. “Non può essere un delitto politico perchè nessuna organizzazione politica potrebbe rivendicare a sé la manifestazione e la sua organizzazione”.
Socialisti e comunisti denunciarono la tesi opposta e cioè che i mandanti dovevano essere cercati tra gli agrari ed i mafiosi in combutta con alcuni ambiente politici della Democrazia Cristiana, ma soprattutto della destra siciliana ed esponenti del separatismo. Una versione dei fatti non condivisa da chi ha sempre ipotizzato che il mandante della strage di Portella potesse essere l’avvocato Antonino Varvaro, esponente del movimento separatista di Finocchiaro Aprile. Una ricostruzione bollata come “incredibile” da Emanuele Macaluso che tuttavia coincide in parte con quella di uno storico attento come Salvatore Lupo. Nella sua prefazione ad un libro pregevole frutto di una accurata ricerca di Francesco Petrotta, lo storico catanese sostiene che “sarebbe fuori strada chi vedeva la strage di Portella come il primo manifestarsi delle forze oscure che hanno inquinato la vita democratica della nostra Repubblica”.
L’indubbio collegamento del dramma con la politica regionale e nazionale del tempo non significa che i mandanti vadano necessariamente cercati a Roma o a Palermo. Soprattutto non deve occultare il contesto locale in cui esso si realizzò. “La mafia esisteva e ammazzava sindacalisti già in una fase antecedente alla seconda guerra mondiale ed alla guerra fredda”, scrive Lupo. L’avvocato Varvaro si presentò nel collegio dominato dalla banda Giuliano ed ottenne un modesto successo con il suo movimento della sinistra separatista. Era possibile che il bandito avesse promesso ai separatisti una quantità di voti e che avesse preso contatti con qualcuno che non gli portò i voti promessi. In sostanza, il movimento separatista di Varvaro non ebbe successo perché la sinistra resse ed anzi resse bene.
Così Giuliano, che era stato arruolato dai separatisti per la loro escalation estremistica, volle punirli con il terrore o fu convinto a farlo da qualcuno che voleva drammatizzare lo scontro. Forse questa potrebbe essere una chiave interpretativa più realistica. Ma per chi ha perso nonni, moglie e figli in quella tragica mattina di settant’anni fa, Portella della Ginestra resterà, forse per sempre, la strage senza colpevoli.