Cominciamo dalle donne. La logica di tutto il Pnrr, il piano di rilancio che i soldi europei rendono possibile e che Mario Draghi ha messo in cantiere, ruota intorno ad un concetto molto semplice: gli interventi congiunturali non bastano più, per scuotere l’economia italiana dalla paralisi degli ultimi 30 anni occorre metter mano ai fattori strutturali profondi che impiombano i meccanismi della crescita. Non siamo il solo paese, ad esempio, che rallenta per l’invecchiamento progressivo della popolazione e il ridursi della forza lavoro, che neppure gli immigrati riescono a rimpolpare. Ma siamo quello che ha la risposta più a portata di mano: mettiamo più donne in condizione di lavorare.
Oggi, solo il 65 per cento degli italiani ha un lavoro o lo sta cercando. Se portassimo questa partecipazione al mercato del lavoro al 73 per cento, che è la media dell’eurozona, l’economia, dicono gli economisti, avrebbe un guizzo: anche se solo metà di questi potenziali lavoratori in più trovasse effettivamente un posto, hanno calcolato ad Unicredit, il Pil crescerebbe, solo per questo, di mezzo punto percentuale in più l’anno (sembra poco, ma non lo è: l’economia italiana, dagli anni ’90, raramente è cresciuta più dell’1 per cento l’anno). Ecco una leva strutturale e permanente di crescita.
Come si fa? Un riserva di potenziali lavoratori noi l’abbiamo. Sono appunto le donne. La partecipazione maschile al mercato del lavoro, in Italia, è in linea con le medie europee. E’ quella femminile che latita, ferma al 55 per cento. Eppure, mobilitare il lavoro femminile, anche rapidamente, è possibile. Lo dimostra un paese a noi vicino, socialmente e culturalmente: la Spagna.
Nel 2000, il 53 per cento delle donne spagnole fra i 15 e i 64 anni aveva o cercava un lavoro, sotto la media dell’eurozona (60 per cento). In Italia, eravamo al 47 per cento. Oggi, le spagnole, al 68 per cento, hanno agguantato la media dell’eurozona, con un balzo di 15 punti. Le italiane si sono fermate al 55 per cento, solo 8 punti in più. Perché in Spagna sì e da noi no? La dottrina economica spiega che, nel lavoro femminile, conta l’equilibrio fra stipendio e costo delle cure casalinghe a cui bisogna rinunciare per andare a lavorare.
Il part time, così popolare nel lavoro femminile in giro per il mondo, sembrerebbe una risposta a questo problema di bilanciamento. Nel 2000, il 17 per cento delle donne lavorava a part time, sia in Italia che in Spagna. Nel 2018, questa quota era raddoppiata al 35 per cento in Italia, ma in Spagna non c’era stato nessun boom: le lavoratrici part time erano salite solo al 25 per cento del totale.
Le politiche pubbliche di aiuto e sostegno, allora? Neanche. L’esempio dei paesi nordici mostra l’importanza cruciale, per il lavoro femminile, degli asili nido e, in generale, del sostegno pubblico. Però, le donne spagnole, rispetto alle italiane, non stanno meglio, anzi. L’Italia spende, in media, per ogni bambino sotto i 5 anni, 3.900 euro l’anno. La Spagna 2.900. Il congedo di maternità, in Italia, vale 22 settimane, all’80 per cento della retribuzione. In Spagna, 16 settimane, sia pure al 100 per cento dello stipendio.
Insomma, né il part time, né gli asili nido, né la maternità, né la spesa pubblica. Secondo una ricerca Unicredit, il nocciolo della differenza che spinge le spagnole sul mercato del lavoro più delle italiane lo fanno stipendio e tasse.
A cominciare dal gender gap. Se, come dicono gli economisti, il fattore decisivo del lavoro femminile è il rapporto fra stipendio e costi dell’assenza da casa, più consistente la formazione professionale, più attraente la prospettiva del lavoro fuori casa. Ma, in Italia, una laureata guadagna il 30 per cento in meno del collega maschio. In Spagna, la differenza è limitata al 18 per cento. Conta anche il trattamento fiscale. In Spagna, una coppia che lavora paga il 7 per cento di tasse in meno, rispetto ad una coppia italiana. E, in Italia, a scoraggiare il lavoro del secondo componente della coppia c’è la progressiva sparizione di incentivi e sussidi fiscali al crescere del reddito.
Come sempre, tuttavia, l’Italia è segnata in misura decisiva dalla storica spaccatura fra Mezzogiorno e resto del paese, che non trova riscontro in Spagna. La partecipazione femminile al mercato del lavoro è sostanzialmente omogenea in Spagna, dai Paesi Baschi all’Estremadura. In Italia è su livelli europei al Nord e al Centro, ma nel Mezzogiorno crolla al 40 per cento. Contano aspetti culturali, e, ancor più, la disponibilità di servizi come gli asili nido (solo il 13 per cento dei bambini meridionali ha un posto in un nido). Ma pesa anche il lavoro nero, che confonde i dati e che ha largo spazio in settori come l’agricoltura, il turismo, bar e ristoranti che hanno particolare peso nell’economia meridionale. Forse, considerando il lavoro nero, la differenza nel lavoro femminile fra Mezzogiorno e resto d’Europa è meno vistosa. Ma le caratteristiche dell’economia spagnola non sono molto diverse dalle nostre. E la Spagna sembra aver affrontato meglio di noi il problema del lavoro nero. Ce lo dice, indirettamente, un altro indicatore. Il 27 per cento delle donne spagnole risulta avere un lavoro regolare, ma temporaneo, tipico dell’agricoltura e del turismo. In Italia, solo il 17 per cento. Strano.
Maurizio Ricci