La trattativa sindacale di Pomigliano non si chiuderà con l’avvenuta consultazione dei lavoratori sull’ipotesi di accordo. Anche in caso di approvazione dell’intesa da parte della maggioranza dei lavoratori il nostro sistema delle relazioni industriali non dispone di strumenti idonei a garantire la certezza della vincolatività dell’accordo anche nei confronti degli iscritti ai sindacati dissenzienti e, dunque, c’è da immaginare che la partita rimanga aperta ancora per un po’. L’esistenza di un potere di veto di tal fatta rappresenta un’evidente anomalia che andrebbe corretta con un aggiornamento delle regole ma, ancor prima, è da comprendere la strategia sindacale di chi – sfruttando legittimante un buco di sistema – lo ha esercitato.
In tal senso fa riflettere che mentre la FIAT, pur scontando l’opposizione del sindacato storicamente più rappresentativo, ottiene il consenso della maggioranza dei sindacati (e probabilmente dei lavoratori) ad un nuovo accordo che tende ad un recupero di efficienza e produttività dell’organizzazione del lavoro (nuovi turni di lavoro, più lavoro, correzioni dell’assenteismo, ecc…) in Cina i lavoratori della Honda ottengono, con una dura azione di lotta sindacale sfuggita al controllo delle organizzazioni sindacali (accusate di essere troppo compiacenti con la direzione aziendale), un incremento dei salari del 35%.
L’asimmetria dei risultati negoziali di queste diverse trattative dimostra che la forza contrattuale di fatto che una collettività di lavoratori è in grado di esprimere dipende prima di ogni cosa dal livello di competitività dell’impresa. Se nella repubblica popolare Cinese ad un basso livello di protezione corrisponde un elevato margine di profitto del capitale, e la situazione è tale che neanche un sindacato accondiscendente riesce ad arginare le rivendicazioni spontanee dei lavoratori, a Pomigliano la situazione è inversa e l’accordo, di conseguenza, è posto dall’azienda – e come tale accettato dai lavoratori nonostante la contrarietà di CGIL – come unica alternativa alla delocalizzazione delle attività produttive.
Acquisire questo dato di fatto vuol dire, per il sindacato, accettare l’idea che il livello di protezione dei lavoratori è mobile verso l’alto e verso il basso a seconda della congiuntura economica del momento e che, di conseguenza, tale flessibilità può – ed anzi deve – anche essere utilizzata per salvaguardare l’interesse prioritario dei lavoratori a conservare la loro occupazione ed una prospettiva occupazionale per i loro figli.
Per CISL, UIL ed UGL questa è una strada praticabile. Per la CGIL non è così ed al di là della radicalizzazione alimentata in questo caso dalla FIOM non è solo la vicenda di Pomigliano a dimostrarlo. Solo negli ultimi mesi la CGIL ha rifiutato di sottoscrivere l’accordo con il quale il Gruppo Banca Intesa si è impegnato a creare nuova occupazione in aree depresse con un trattamento economico di ingresso inferiore a quello previsto dal CCNL di settore e non ha firmato neanche l’accordo che ha sancito il riordino del sistema di emergenza ed urgenza della sanità regionale Siciliana garantendo la conservazione dei livelli occupazionali in cambio della rinuncia ad un contenzioso che riguardava competenze economiche del passato. Ed è noto, solo per andare indietro di qualche mese, che un uguale atteggiamento di ostilità fu manifestato dalla CGIL anche nei confronti dell’intesa siglata a chiusura della vertenza Alitalia; infine sottoscritta – probabilmente – perché in quel caso non si trattava di derogare un contratto collettivo nazionale ma, più semplicemente, di sostituire un contratto aziendale con uno nuovo.
Un atteggiamento di tal genere potrebbe avere una motivazione comprensibile, e dunque riscuotere anche un certo consenso, se i conti economici delle aziende fossero in qualche modo alterati ad hoc per nascondere margini di guadagno. Ma se – come credo – non è così, questo posizionamento assume contenuti ideologici che rischiano di allontanare ulteriormente il sindacato dalla gente. Sarebbe più coerente negoziare la flessibilità dei livelli di protezione per difendere l’interesse economico generale prevedendo, ad esempio, che la contrattazione collettiva aziendale possa esercitarsi – limitatamente ad alcune materie – anche in deroga alla contrattazione collettiva nazionale. E pretendere, magari, di avere più voce sulla lotta all’evasione e, più in generale, all’illegalità.
Se poi andiamo a vedere il merito dell’ipotesi di accordo di Pomigliano, la posizione della CGIL appare ancora più difficile da giustificare. L’intesa è composta essenzialmente da tre parti qualificanti.
Nella prima vengono affrontati i temi dell’organizzazione del lavoro con la previsione di una specifica disciplina dell’orario di lavoro (turni, pause, straordinario, ecc…) che contempla, tra l’altro, l’assorbimento di alcune voci retributive contrattuali (festività ancora pagate ancorchè in parte soppresse, permessi retribuiti concessi per ridurre di fatto l’orario contrattuale di lavoro) del tutto accessorie e risalenti agli anni ottanta e novanta.
Nella seconda viene affrontata la questione dell’assenteismo, sollevando l’azienda dall’onere di corrispondere il trattamento di malattia in presenza di assenze quantitativamente anomale coincidenti con particolari eventi (sciopero, manifestazioni, ecc..). Anche in questo caso il trattamento cui si riferisce l’accordo ha un’origine contrattuale e riguarda esclusivamente la parte di copertura economica della malattia che, per legge, non rientra nella competenza dell’ente previdenziale.
La terza – forse la più sentita – è quella contraddistinta dalla clausola di responsabilità che la CGIL pare interpretare come una limitazione al diritto di sciopero. La clausola sanziona i comportamento di sindacati e lavoratori che si rendano inadempimenti rispetto agli impegni assunti nell’accordo e, comunque, che siano idonei a rendere inesigibili le condizioni concordate per la realizzazione del piano. Ora, è vero che tra i comportamenti idonei a rendere inesigibili le condizioni concordate potrebbe in qualche modo rientrare anche lo sciopero (ma secondo un’interpretazione in buona fede, riterrei soltanto nel caso in cui quello sciopero fosse diretto a rivendicare una modificazione dell’accordo). Però è anche certo che la vera sanzione sarebbe quella, valida e pienamente efficace anche in assenza di qualsiasi patto, di liberare l’azienda dall’impegno di perseverare nell’implementazione del piano di investimenti (con l’aggiunta della sanzione della sospensione di prerogative sindacali di origine contrattuale quali, ad esempio, contributi e permessi retributivi sindacali aggiuntivi rispetto a quelli di legge). Mentre proprio non può suscitare dubbi la coerenza, oltre che legittimità, della previsione per la quale il comportamento del lavoratore inadempiente rispetto agli impegni contrattuali relativi allo svolgimento del rapporto di lavoro possa assumere una rilevanza disciplinare.
E’ semmai il senso più profondo di quella clausola che lascia un po’ di amaro in bocca. Difficile trovare accordi che, come questo, lascino trasparire un uguale grado di reciproca diffidenza tra le parti. Ed in questo senso quella clausola, con la conflittualità che sottintende, è assai lontana dai modelli partecipativi di cui tanto si parla. E’ importante continuare ad interrogarsi su come è stato possibile arrivare a questo punto e che tutti si assumano le loro responsabilità.
Marco Marazza, professore di diritto del lavoro all’Università di Teramo