Da tempo abbiamo sostenuto la necessità di una forte integrazione tra politiche del lavoro e politiche di sviluppo. Da tempo abbiamo rilevato (scrivendolo anche in un rapporto predisposto per l’OECD) come in Italia tale integrazione non esista né sul piano dei soggetti e delle istituzioni preposte alla elaborazione delle politiche, né sul piano dei contenuti delle politiche stesse, con grave danno per l’efficienza sia delle une che delle altre. Questo è documentabile sia a livello nazionale sia a livello dei governi locali.
Il presente governo ci presenta una novità che può essere rilevante in proposito: la fusione del Ministero del Lavoro con il Ministero dello Sviluppo Economico. Sembrerebbe quindi che a livello istituzionale, essendo il medesimo soggetto titolare sia delle politiche del lavoro che delle politiche di sviluppo, l’integrazione tra le due sia garantita. Ma in realtà tale garanzia non esiste: potrebbe infatti succedere che gli organi dei due ministeri si ignorino reciprocamente e procedano ciascuno per proprio conto a elaborare le rispettive politiche. Potrebbe non esistere (e probabilmente non esiste) uno snodo istituzionale dove si coordinino organicamente gli interventi e gli strumenti delle politiche del lavoro e delle politiche di sviluppo per il raggiungimento di obiettivi comuni.
Pensiamo alle politiche attive del lavoro: esse devono inserirsi in un contesto economico caratterizzato da processi evolutivi di profonda trasformazione. La loro efficacia è quindi condizionata alla calibrazione, o meglio proprio alla integrazione, con i processi di evoluzione della struttura economico-produttiva e con il governo di tali processi attraverso gli strumenti della politica di sviluppo. Le stesse linee di politiche attive del lavoro (pensiamo alla formazione, alla rilevazione dei fabbisogni professionali, alla traduzione di questi in fabbisogni di skills e di capitale cognitivo, pensiamo alla funzione di orientamento, e così via) potrebbero essere costruite nel vuoto o addirittura deviate su binari morti se mancasse il coordinamento e la sincronizzazione con le tendenze evolutive del sistema economico e con le politiche di sviluppo industriale, agricolo, turistico, tecnologico, commerciale, culturale, paesaggistico, ambientale, in una parola con le complessive politiche di sviluppo del territorio. D’altro lato, anche le politiche di sviluppo potrebbero incontrare colli di bottiglia, o comunque perdere efficacia, a causa di insufficienti o malgovernate caratteristiche di mobilità, organizzazione, qualificazione e capitale cognitivo della forza lavoro. Quanto questa stretta relazione di coordinamento e integrazione sia importante specialmente in un periodo caratterizzato dai profondi processi di trasformazione legati alla cosiddetta quarta rivoluzione industriale è del tutto evidente. Come è del tutto evidente che al momento gli organi preposti alla elaborazione e alla gestione delle politiche attive del lavoro (l’intero sistema dei Centri per l’Impiego) non siano in grado, tranne poche rarissime eccezioni, di svolgere questa funzione di raccordo tra politiche attive del lavoro e politiche di sviluppo.
Le politiche attive del lavoro sono la prima area dove la necessità di tale integrazione appare evidente; ma teniamo ben presente che il loro effetto non può andare oltre un certo limite. Esse hanno la funzione essenziale di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro nonché quella di elevare il capitale cognitivo della forza lavoro. Pertanto, il loro principale obiettivo è quello di ridurre la quantità di posti vacanti, che rappresenta la domanda di lavoro inevasa. Esse però non svolgono, se non indirettamente e in misura limitata (per via degli effetti moltiplicativi della copertura di posti di lavoro vacanti e dello stimolo di nuove iniziative imprenditoriali autonome), la funzione di creazione di nuovi posti di lavoro. Questa funzione è propria delle politiche di sviluppo le quali, attraverso l’innalzamento del livello di attività economica generano nuova domanda di lavoro per la quale, in stretto coordinamento, è compito della politica del lavoro predisporre una risposta adeguata dal lato dell’offerta. Bisogna superare la concezione delle politiche del lavoro in termini di definizione e regolazione del rapporto giuridico tra datore di lavoro e lavoratore; questo aspetto è molto importante, ed è essenziale sia sotto il profilo della tutela del lavoratore, dei suoi diritti e della sua dignità, sia sotto il profilo della certezza del diritto dal lato dell’impresa; ma le politiche del lavoro non possono ridursi a questo. Esse devono evolvere in politiche per l’occupazione e quindi innestarsi nelle politiche di sviluppo e divenire un ramo della politica economica oltre che, o piuttosto che, un ramo del diritto del lavoro. Certamente le istituzioni del mercato del lavoro devono assumere una configurazione idonea a supportare la dinamica economica definendo e tutelando i diritti dei lavoratori come persone e come cittadini, ma la crescita del livello di attività economica e dell’occupazione è il frutto di appropriate politiche economiche fondate su strategie “macrofondate” (è importante sottolinearlo) e di lungo periodo.
E qui si torna alla fusione tra Ministero del Lavoro e Ministero dello Sviluppo Economico: questa è certamente una buona occasione per realizzare un’integrazione fruttuosa tra le due politiche; ma perché ciò accada deve verificarsi una condizione necessaria: devono esistere strategie di sviluppo. L’attività del Ministero non può ridursi alla sola gestione delle crisi industriali. Ci sono almeno due ambiti principali di azione del Ministero nei quali le politiche del lavoro possono (e dovrebbero) svolgere un ruolo sinergico. Il primo è quello della politica industriale; il secondo è quello delle politiche di sviluppo del Mezzogiorno. È ora che l’assenza (continuamente lamentata) di una politica industriale finisca. Si badi bene: interventi di politica industriale se ne sono avuti a bizzeffe; ciò che non si è avuto è una strategia organica di politica industriale lungo la quale articolare gli interventi. E’ molto più facile realizzare interventi sparpagliati o distribuire sussidi e incentivi piuttosto che elaborare una robusta strategia industriale inquadrata nella evoluzione dell’economia europea e mondiale. Eppure, questa è necessaria sia per risolvere i problemi finora irrisolti del nostro sistema produttivo sia per frenare lo sgretolamento alimentato dalla globalizzazione e dalla crisi scatenata nel 2008. Elaborare una strategia di politica industriale è un compito molto complesso che richiede conoscenza e riflessione per non provocare danni superiori alla sua assenza, ma senza questo riferimento strategico anche le iniziative dalle migliori intenzioni (come il piano Industria 4.0) rischiano fortemente l’insuccesso. Il secondo ambito è quello delle politiche di sviluppo del Mezzogiorno. È paradossale che l’area territoriale (non certo irrilevante) nella quale si concentrano i maggiori problemi economici e sociali del paese riceva nel “contratto di governo” soltanto l’attenzione di una riga. Trattandosi non tanto di un problema di “crescita lenta”, quanto piuttosto di un vero e proprio problema di “sviluppo”, sarebbe necessario un adeguato programma di interventi ad hoc. E’ vero che l’esperienza ci ha mostrato in passato (specie negli ultimi decenni) programmi e interventi mal pensati e mal gestiti, con sperpero di risorse economiche, anche europee; ed è anche vero che spesso “mezzorgiornologi” (o “meridionalisti” per usare un termine più dignitoso) di varie specie intonano tuttora le solite solfe lamentose, ma tutto ciò non costituisce ragione sufficiente né per ignorare il problema del Mezzogiorno (danneggiando così l’intera economia del paese) né per non impegnarsi a elaborare quadri strategici innovativi capaci di innescare processi sostenibili di sviluppo.
Sia le politiche attive del lavoro, sia le politiche per l’occupazione in senso più ampio richiedono dunque, per conseguire i migliori risultati, una stretta integrazione con le politiche di sviluppo. E queste ultime, a loro volta, traggono vantaggio dall’integrazione con le politiche del lavoro. Perché ciò avvenga e necessario che si realizzi un legame sinergico nella fase della elaborazione programmatica di entrambe le politiche e della loro implementazione. I due pilastri delle strategie di politica industriale e delle strategie di politica di sviluppo del Mezzogiorno possono costituire gli assi principali attorno ai quali costruire una batteria di azioni complementari organicamente concepite in funzione del raggiungimento degli obiettivi programmatici. La fusione dei due Ministeri può essere il segnale della volontà di procedere in questa direzione, e sicuramente ne costituisce una favorevole occasione. I fatti ci diranno se questa strada verrà effettivamente percorsa.
Sebastiano Fadda