Il piano PNRR impone a tutti, tanto più al mondo dell’istruzione, di guardare oltre l’immediato e di affrontare con coraggio le sfide del futuro, un futuro incerto, che, proprio per questo, chiede più coraggio. Il Covid 19 ha avuto un impatto quasi su ogni studente del pianeta, e, al di là dei risultati, l’apprendimento a distanza è diventato di fatto, per diversi periodi, il solo modo di impartire l’istruzione. I cambiamenti avvenuti nelle settimane e nei mesi della pandemia non sono necessariamente quelli che l’educazione richiederebbe. Anzi la DAD è stata una tragedia e Ocse dichiara che 38 settimane di DAD in Italia sono state deleterie soprattutto perché siamo il Paese che ne ha usufruito maggiormente con anche un abbandono e dispersione scolastica enorme. Occorre avere la capacità di non fermarsi ai puri effetti immediati e capire come, dal curricolo alla pedagogia, dall’insegnante allo studente, dai luoghi ai tempi, l’istruzione possa liberarsi di un modello strutturale e organizzativo entro cui è stata ingabbiata per secoli e che non regge più.
Qualsiasi tentativo di rilanciare l’educazione, di personalizzare l’apprendimento, di tessere attivi collegamenti con la comunità locale e globale, di attribuire alle studentesse e agli studenti il potere di scelta e l’autonomia di gestire il proprio apprendimento, si imbatte nelle rigidità del curricolo, dell’organizzazione delle discipline, dell’orario, del calendario, dell’organico dei docenti, ecc. Proviamo a partire dai bisogni dell’educazione e non dalla scuola, da ciò che modificherà i modi dell’apprendimento e non dall’attuale struttura che lo impartisce. Gli scenari che si aprono per la scuola nei prossimi 20 anni ci dicono che forse guarderemo con incredulità alle rigidità della sua attuale struttura organizzativa. E’ necessario da subito infrangere molte di queste inflessibilità, dando autentica autonomia alle scuole, che significa autonomia organizzativa e didattica, con la possibilità di modificare curricoli e orari, autonomia finanziaria e assunzione diretta del personale. Un’autonomia che richiede una rigorosa valutazione dei risultati, con la consapevolezza, comunque, che ci sono risultati a breve termine e a lungo termine, cognitivi e non cognitivi, istruttivi ed educativi, e che i risultati a breve termine, cognitivi ed istruttivi, non si traducono necessariamente in risultati a lungo termine, non cognitivi ed educativi, che sono quelli che maggiormente determinano il lifelong learning. Dopo tanti fallimenti occorre avere la lucida consapevolezza che non ci sarà da subito la possibilità di rilanciare in tutte le scuole un’autonomia autentica.
Così, mentre si deve cercare di rimuovere da tutto il sistema alcuni ostacoli, peraltro in contrasto con la Costituzione e il Regolamento dell’autonomia, diventa necessario sperimentare situazioni di autonomia avanzata laddove ci siano idee e volontà di innovazione, spezzando in qualche punto quel circolo vizioso che si è instaurato nelle scuole fra negazione dei diritti e offuscamento dei doveri. Per sperimentare un’autonomia scolastica incisiva che possa intervenire sui curricoli, sugli organici, sulle assunzioni, sui tempi scuola non è sufficiente l’utilizzo dell’art. 11 del DPR 275/99, Regolamento dell’Autonomia. Da ADI associazione nazionale di dirigenti scolastici è stato predisposto un disegno di legge per la costituzione di Istituti Scolastici ad Autonomia Speciale, ISAS, che si sono ispirati alle Academies inglesi. Si tratta di autonomia speciale perché: • il Consiglio di Istituto assume le caratteristiche di Consiglio di Amministrazione, •l’istituto gode di massima libertà nella costruzione del curricolo, • gestisce un budget, compreso quello per il personale, senza vincoli di destinazione, calcolato sul costo medio dello studente, • pratica l’assunzione diretta del personale, • prevede una pluralità di figure docenti, • articola in modo più funzionale profili e competenze del personale ATA, • si dà un’organizzazione tecnica articolata funzionale al progetto e ridistribuisce le funzioni del collegio ad organismi competenti. L’iniziativa è dello stesso Istituto o di altri soggetti.
Dipende dalla passione e dalla capacità di una parte almeno del corpo professionale, del corpo sociale, delle istituzioni, degli interessati di farsi avanti. Ma non solo iniziative legate alla volontarietà. Esistono anche situazioni che, per evolvere, necessitano di un nuovo autonomo assetto organizzativo, ci si riferisce ad esempio ai nuovi istituti quadriennali, o a una nuova combinazione di istruzione professionale statale e istruzione e formazione professionale regionale, oppure ancora al recupero di situazioni di degrado dove altissimo è l’abbandono scolastico e che necessitano di interventi radicali. L’auspicio è che, fra le riforme che devono accompagnare e sostenere il PNRR, ci sia anche questa riforma, o qualcosa ad essa simile, che dia vita ad Istituti Scolastici ad Autonomia Speciale o avanzata.
Abbiamo la indispensabile necessità di uno stato giuridico per ricreare l‘identità professionale per il progressivo declino della professione. Sono decenni che la politica scolastica è sopraffatta dall’amministrazione del personale, in particolare dei docenti (assunzioni, concorsi, sanatorie, mobilità), rimanendo comunque inefficiente, priva di qualsiasi sensato legame con le condizioni oggettive (natalità, curricoli, tempi, ecc.) e in primo luogo con gli obiettivi strategici dell’istruzione. Tutto questo ha generato al contempo immobilismo, irrazionale allocazione delle risorse, ma soprattutto una grave deprofessionalizzazione della docenza. Il vuoto di regole, la mancanza di un adeguato “stato giuridico” della professione, ha permesso al sindacato di invaderne lo spazio, assorbendo quasi ogni aspetto nel contratto. Si è venuta così costruendo un’interpretazione della funzione docente come ruolo subordinato comune a quello di qualsiasi altro lavoratore dipendente. Una concezione in cui l’insegnante va difeso dal proprio lavoro (immodificabilità dell’orario, volontarietà della formazione, nessun apprezzamento del merito ecc.) piuttosto che valorizzato nel lavoro. Una visione della docenza perfettamente integrata, peraltro, con la struttura centralistica e burocratica dell’amministrazione.
Nutro da tempo la convinzione che un rilancio dell’istruzione non possa che passare attraverso il contestuale riconoscimento dell’autonomia scolastica e della docenza come professione. Una professione è contraddistinta da un sapere specialistico aggiornato (standard professionali) rigorosamente attestato, dall’autonomia professionale contemperata da un proprio codice deontologico e, sempre più, da una leadership collaborativa. È evidente che solo un rinnovato stato giuridico può ridefinire e rilanciare i diversi aspetti che caratterizzano la professione, da una rinnovata visione dell’autonomia professionale e della libertà di insegnamento al codice deontologico, dal sapere specialistico (standard professionali) alla formazione e al reclutamento, dalla valutazione alla differenziazione di carriera, da una pluralità di figure professionali a pluralismo di condizioni di lavoro.
Ritengo che l’insieme delle riforme prefigurate dal PNRR e dalle Linee Programmatiche, tra cui il Testo Unico sull’istruzione, non possa prescindere dalla stesura di un nuovo significativo Stato giuridico della docenza. Di seguito due punti di stato giuridico che rivestono particolare urgenza 1) formazione e reclutamento. 2) creazione di una leadership intermedia della docenza. 3) Laurea abilitante, albo regionale, assunzione diretta da parte degli Istituti I due aspetti formazione e reclutamento non possono essere disgiunti. Per quanto riguarda la formazione i problemi si pongono principalmente per la docenza nella scuola secondaria. Sono convinta che vada innanzitutto risolta l’annosa questione dell’abilitazione per la docenza nella scuola secondaria. Il PNRR nella Missione 4 ambito 1.6 ha previsto la riforma delle lauree abilitanti per determinate professioni, tale riforma prevede la semplificazione delle procedure per l’abilitazione all’esercizio delle professioni, rendendo l’esame di laurea coincidente con l’esame di stato, con ciò semplificando e velocizzando l’accesso al mondo del lavoro da parte dei laureati. Questa riforma non riguarda l’insegnamento perché non ci sono lauree magistrali finalizzate all’insegnamento nell’istruzione secondaria, ma vale la pena tenerne conto. Nelle Linee Programmatiche si fa invece specifico riferimento a percorsi di formazione post lauream. Sarebbe opportuno però ricordare che le esperienze degli ultimi 30 anni di percorsi di formazione post lauream ai fini dell’abilitazione, dall’istituzione delle SSIS nel 1990 in poi, sono state tutt’altro che risolutivi. Varrebbe dunque la pena fare tesoro della lezione e cambiare. E’ più opportuno fare leva sulla laurea abilitante o attraverso un biennio magistrale tutto rivolto all’insegnamento o attraverso una specifica integrazione per l’insegnamento all’interno di esso. Sul versante reclutamento, considerati i decennali fallimenti, la sola soluzione è assegnare il reclutamento agli istituti autonomi. Si può ipotizzare albi professionali regionali, su piattaforme che riportano i portfoli professionali, in cui i docenti abilitati possono iscriversi scegliendo una sola Regione. L’albo regionale costituirà il solo bacino di candidati da cui gli Istituti autonomi potranno attingere per la loro selezione concorsuale. Concordo sull’ipotesi avanzata dal ministro Brunetta che l’anno di formazione e prova debba concludersi con un esame di valutazione dell’attitudine e della preparazione, con assunzione a tempo indeterminato in presenza del suo superamento. L’indilazionabile creazione di una leadership intermedia è fondamentale- Una coraggiosa valorizzazione dell’autonomia scolastica, introduce la creazione di una leadership intermedia della docenza, che è ormai generalmente accettata come indispensabile fattore di sostegno. A quasi 25 anni da quella prima blanda ipotesi contenuta nell’articolo 21 della Legge 59/1997, istitutivo dell’autonomia scolastica (“l’individuazione di nuove figure professionali del personale docente, ferma restando l’unicità della funzione”), molti pregiudizi e opposizioni sono stati superati e ci sono le condizioni per una puntuale definizione delle caratteristiche di questa “leadership intermedia”, dall’articolazione dei ruoli alle modalità della sua formazione, dal suo reclutamento alle condizioni normative. Qui preme sottolineare che il reclutamento deve essere decentrato, attuato dalle istituzioni scolastiche autonome, le sole titolate a stabilire le proprie necessità. Se è vero che i tempi sono maturi per la creazione di questa fascia intermedia di leadership, si deve constatare, purtroppo, che né nel PNRR, né nelle Linee Programmatiche se ne fa cenno. Sviluppo dello 0-6: rilanciare la “scuola dei 2 anni” –Nonostante che gli investimenti per il sistema integrato 0-6 (€4,60 mld) costituiscano il maggior finanziamento della Missione Istruzione, non è indicata nessuna priorità per il loro utilizzo. Ritengo da dati concreti invece che le grandi disparità territoriali da un lato e il forte calo demografico dall’altro impongano da subito una rigorosa pianificazione degli interventi. In questa prospettiva è opportuno sottolineare una questione importante, attuata in Francia: la scuola dei 2 anni, a cui in Italia corrisponde una sperimentazione mai decollata che va sotto il nome di sezioni primavera, dedicate, per l’appunto, ai bimbi dai 24 ai 36 mesi. Uno sviluppo di queste sezioni aiuterebbe molto a coprire la fascia di età più importante del segmento 0-3. I motivi del mancato decollo vanno ricercati innanzitutto nel diffuso rifiuto delle scuole statali di accogliere, a differenza di quelle private, i bambini di 2 anni; un rifiuto in parte riferibile alle procedure per il reclutamento del personale, con la non disponibilità delle insegnanti in servizio, e all’impianto ordinamentale che non ha al momento previsioni specifiche per la fascia 24-36 mesi. Tale mancanza fa sì che si debba ricorrere ad accordi con le Regioni, poiché quella fascia di età è rimasta di pertinenza regionale, con tutta la burocrazia che segue. Occorre uscire dalla nebulosa sperimentazione delle sezioni primavera e prevedere una specifica norma legislativa. Così è in Francia dove la scuola dei 2anni è regolata dal Code de l’Education che all’ articolo L113-1 recita: “Le scuole dell’infanzia o le scuole primarie dove ci sono classi di scuole dell’infanzia, nelle zone sia rurali che urbane, possono accogliere bambini a partire dall’età di due anni, in condizioni educative e pedagogiche adeguate alla loro età, finalizzate al loro sviluppo motorio, sensoriale e cognitivo, come specificato dal ministro dell’educazione nazionale. Questo servizio è organizzato prioritariamente nelle scuole situate in un ambiente sociale svantaggiato, sia nelle aree urbane, rurali o montane e nelle regioni d’oltremare”. E, a differenza delle sezioni primavera, la scuola dei 2 anni francese è gratuita come la scuola 3-6 anni. Fortemente sviluppata dal precedente governo socialista, fornisce un servizio dove non arrivano gli asili nido, ed è rivolto soprattutto alla popolazione svantaggiata.
In Italia il numero delle sezioni primavera ammesse al finanziamento statale nell’a.s. 2018-19 è stato di 1825. Per quanto riguarda la collocazione geografica, le sezioni primavera attive nel nord Italia sono 993, quelle nel centro sono 183; nel sud e nelle isole sono funzionanti 764. Sono di più dove ce ne è meno bisogno Complessivamente le sezioni primavera (finanziate e non) associate ad un nido sono 225, quelle associate a scuole dell’infanzia sono 1.715 (5 sezioni sono associate a strutture che ospitano sia nido sia scuola dell’infanzia) Una delle cose fondamentali da notare è che delle 1715 sezioni aggregate a scuole dell’infanzia, 1494 sono in scuole private, solo 158 in quelle statali, 63 comunali. Per quanto riguarda la gestione statale, essa è più diffusa al sud e nelle isole rispetto al nord e al centro (38 nelle regioni settentrionali, 42 nelle regioni centrali, 78 nelle regioni meridionali). Nella pianificazione, tutta da costruire, dello sviluppo degli asili nido, si tenga conto non solo dei divari territoriali, ma anche del calo demografico, due fenomeni che spingono a dare stabilità alle sezioni primavera, trasformandole con un articolo di legge in scuola dei 2 anni, dove il termine scuola non tragga in inganno, perché sono sezioni con un rapporto insegnante/bambini come nel nido e con un preciso piano pedagogico. E’ necessario uniformare la normativa del personale delle scuole dell’infanzia e degli asili nido comunali con quello delle scuole statali, perché un altro problema che si registra nella costruzione del sistema 0-6 e in particolare nei poli 0-6 è la difformità di condizioni normative e contrattuali fra personale insegnante ed educativo comunale e personale insegnante statale, così come sono inconcepibili grandi differenze nel calendario scolastico, spesso entro lo stesso quartiere. Considerata l’attuale incapacità di addivenire a una gestione unitaria fra servizi statali e comunali, si cerchi almeno di uniformare come primo passo la gestione del personale. Abbiamo urgenza di una decisa ridefinizione dell’istruzione professionale e non essere ciechi di fronte ai dati -All’inizio del secolo, a.s. 2000-2001 gli iscritti al 1° anno degli Istituti Professionali erano il 25% degli iscritti al 1° anno della scuola secondaria di 2° grado, nell’a.s. 2021-22 sono l’11,9%. La scelta è fra lasciarli morire di morte naturale o intervenire drasticamente senza più cullarsi in miniriforme, dopo lo snaturamento degli istituti professionali e la loro omologazione agli istituti tecnici da parte del ministro Fioroni con la legge 40/2007. Quel famoso articolo 13 della L.40/07, in cui, ironia della sorte, si mescolava la riforma degli istituti tecnici e professionali con la rottamazione degli autoveicoli, stabilì che gli Istituti professionali, per rimanere statali, non potevano più impartire qualifiche e assumevano la struttura degli istituti tecnici, un quinquennio costituito da un biennio e un triennio. Era chiaro che gli Istituti professionali in quanto tali scomparivano, tanto che in una prima bozza si parlava di istituti tecnico-professionali, di cui poi nell’art. 13 rimasero solo i “poli tecnico-professionali”. Dopo la messa in atto della legge 40, l’unica decisione saggia fu presa, non senza contrasti, dalla Provincia di Trento. Trento prese atto che l’istruzione professionale era stata di fatto cancellata per 3 motivi: 1) la sua trasformazione in un percorso quinquennale, al pari dei licei e degli istituti tecnici con conseguente soppressione della qualifica intermedia, che costituiva un’attrattiva per chi non se la sentiva di impegnarsi, da subito, in un percorso quinquennale; 2) la riduzione dell’orario settimanale da 36 a 32 ore; 3) il ridimensionamento dell’area professionalizzante che ne garantiva il collegamento con il mondo del lavoro. La conseguente decisione fu la confluenza degli Istituti Professionali trentini o negli Istituti Tecnici o nell’Istruzione e Formazione Professionale, razionalizzando in questo modo l’istruzione secondaria di 2° grado strutturandola solo su 3 “gambe” (licei, istituti tecnici, istruzione e formazione professionale). Questa deve essere la soluzione a livello nazionale, consapevole che l’operazione è più complessa, ma non impossibile. Si abbia il coraggio fra le varie riforme in cantiere collegate al PNRR di operare queste scelte. Nell’Unione Europea l’IFP rappresenta circa la metà dei diplomati dell’istruzione secondaria superiore, ed è considerata un settore strategico per l’occupazione giovanile. E proprio nell’ambito del sostegno all’occupazione giovanile nel luglio 2020 è stata emanata una Raccomandazione del Consiglio relativa all’istruzione e formazione professionale (IFP) per la competitività sostenibile, l’equità sociale e la resilienza, di cui è importante tenere conto. La proposta mira a rendere i sistemi di formazione professionale più moderni, attraenti, flessibili e adatti all’economia digitale e verde. E c’è un impegno dell’UE ad aiutare i centri di istruzione e formazione professionale a diventare luoghi di eccellenza professionale, sostenendo nel contempo la diversità e l’inclusività. Si sostiene in particolare un rinnovato impulso per gli apprendistati, che andranno, si dice, a vantaggio sia dei datori di lavoro sia dei giovani, preparando una forza lavoro qualificata in un’ampia gamma di settori. In un apposito opuscolo, A future-proof approach, la Commissione Europea pone l’obiettivo che nei prossimi 5 anni almeno 3 studenti su 5 in Istruzione e Formazione Professionale beneficino di apprendimento sul Lavoro, in particolare dell’apprendistato. Alcuni dati ci aiutano forse a inquadrare meglio il problema della filiera possibile istruzione formazione lavoro. Ciò che è proposto non è ancora sufficiente per interrompere in Italia il perdurante trend negativo che vive l’istruzione professionale, non da sola ma insieme all’istruzione tecnica. Il rapporto di AlmaLaurea 2020 indica che solo il 2,1% dei laureati proviene dall’istruzione professionale, il 18,9% dall’istruzione tecnica e il 76,5% dai licei. Questi dati confermano la tendenza degli studenti degli Istituti Professionali, ma anche degli Istituti Tecnici a non proseguire nel percorso universitario, oppure ad abbandonarlo poco dopo l’iscrizione. Per questo è bene disporre di un percorso terziario potenziato, quello degli Istituti Tecnici Superiori, che privilegi i diplomati degli istituti tecnici e professionali, in un processo di continuità. Bisogna passare dagli ITS alle Scuole Superiori Politecniche. Le ragioni per valorizzare l’istruzione terziaria professionalizzante sono forti molto forti per sostenere un canale di formazione terziaria professionalizzante parallelo all’Università. 1. ragioni occupazionali: gli ITS assicurano il pieno impiego 2. ragioni economiche: accrescono la cultura tecnico-scientifica del capitale umano 3. ragioni politiche: superano la contrapposizione tra cultura generale e formazione tecnico-professionale e stabiliscono nuovi ponti tra scuola e impresa 4. ragioni educative e sociali: rispondono a punti di partenza e bisogni differenziati, alla diversità di talenti e aspirazioni. Finalmente in questi motivi non ci si limita al dato occupazionale, ma si mette in rilievo l’importanza strategica di riconoscere pari dignità alla cultura tecnico professionale e all’apprendimento esperienziale, rispetto ad una cultura accademica e all’apprendimento simbolico-ricostruttivo. Si tratta di fare emergere una maggiore laicità in riferimento alle tematiche dell’educazione, di porre fine al caso italiano secondo cui l’ambito dell’istruzione e formazione professionale è visto in modo pregiudiziale come un fattore di segregazione e di esclusione, come se tramite esso si sviluppasse un processo di subcittadinanza, assolutamente non di pari dignità rispetto ai percorsi generalisti e accademici. Non è così in altri Paesi, nella vicina Svizzera, tra cui il Canton Ticino di lingua italiana, il 60% di una coorte d’età segue l’apprendistato, per poi proseguire nel terziario non accademico, è una tradizione di prestigio, selettiva, attraverso la quale è possibile assurgere a funzioni top dell’economia e della politica. Bisogna far crescere la consapevolezza che oggi più che mai gli orizzonti che si aprono alla cultura tecnico professionale appaiono più ambiziosi e perciò da considerare più ambiti di tanti percorsi accademici per esempio di tipo “umanistico”. Da questo approccio culturale occorre partire per costruire nei fatti la pari dignità. Un sistema di pari dignità di quello universitario Che fare allora per dare vita a un sistema terziario professionalizzante di pari dignità di quello universitario, capace di portare gli iscritti da 10.000 a 100.000, come indica il PNRR? Di seguito alcune proposte: • Dare agli ITS la stessa dignità delle lauree triennali. A questo fine vanno trasformati da biennali in triennali, con caratteristiche distinte dalle lauree triennali professionalizzanti. •Potenziare la governance, con massima assunzione di responsabilità e collaborazione fra Ministeri, Regioni e sistema delle imprese. •Agganciare lo sviluppo degli ITS alla 4^ rivoluzione industriale. •Potenziare la presenza di laboratori di ricerca applicata, che svolgano progetti innovativi per conto terzi. •Potenziare la partecipazione delle aziende •Creare un sistema di “passarelle” con l’università per il passaggio alla laurea magistrale dal percorso triennale, ma anche per l’assorbimento negli ITS di parte degli studenti che abbandonano l’Università (il 20% dopo un anno, il 39% dopo due anni, il 45,2% dopo tre anni), e che hanno predisposizione per un diverso tipo di apprendimento e formazione non accademica. Concordo con il Prof. Butera che già nel 2019 proponeva Scuole Superiori Politecniche, che pare molto appropriato. A questo punto, se si trasformano questi percorsi terziari da biennali in triennali, si può anche pensare di modificare il DM. 270/2004 che ha stabilito le diverse specificità della qualifica di dottore corrispondenti attualmente ai relativi livelli di studio universitari (Dottore dopo la laurea triennale, Dottore magistrale, dopo la laurea magistrale, Dottore di ricerca ai titolari di un dottorato di ricerca) e assegnare il titolo di dottore anche a chi conclude il percorso triennale di una Scuola Superiore Politecnica • Potenziare la comunicazione alle famiglie e agli studenti, con interventi della stampa, della televisione, del cinema, dei social media, raccontando le nuove caratteristiche del lavoro e i percorsi formativi innovativi. Sono a favore dei percorsi quadriennali dell’istruzione secondaria di 2° grado, con conclusione della scolarizzazione alla maggiore età. Per questo è utile sostenere ora l’ampliamento della sperimentazione quadriennale, con l’auspicio che preluda all’andare a regime di tutta la scuola superiore. I percorsi quadriennali consentono infatti di: • armonizzare la durata della scolarizzazione con quella della maggior parte dei Paesi europei e non solo europei; • concepire tempo, energie, risorse in una visione di longlife learning; • anticipare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e nel ciclo terziario di istruzione (accademico e non); • garantire il raggiungimento, alla maggiore età, della piena autonomia delle nuove generazioni Inaccettabile l’attuale sperimentazione senza innovazione Un ragionato sostegno alla sperimentazione degli istituti quadriennali, si scontra al contempo con la totale contrarietà all’attuale impostazione che prevede il mantenimento di tutte le discipline e di tutte le ore del percorso quinquennale semplicemente compresse in 4 anni, con la relativa inalterabilità dell’organico. È il tempo della disciplina della verità e dell’autocritica per la scuola e il caso dei percorsi quadriennali può costituire un potente banco di prova. Il ridisegno su quattro annualità può e deve essere la leva per rivisitare l’ecosistema dell’insegnamento e dell’apprendimento, liberando nuove energie attraverso il superamento degli assetti tradizionali. Tutte le precedenti riforme che non hanno intaccato la struttura organizzativa tradizionale non hanno avuto esiti positivi, nemmeno quando è stata fatta l’operazione inversa all’attuale, ossia quella dell’aumento degli anni della secondaria superiora, che ha caratterizzato le riforme dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Si pensi alla quinquennalizzazione dei licei artistici e degli istituti magistrali e lo svuotamento delle qualifiche triennali degli istituti professionali a favore dei diplomi quinquennali. Queste plastiche additive non hanno migliorato la formazione né aumentato la motivazione ad apprendere, basti guardare allo scarto tra gli iscritti al primo anno e quelli al quinto per avere conferma delle incongruenze e non sostenibilità dei percorsi. L’attuale sperimentazione, sulla riduzione di un anno e sulla ricerca di soluzioni ed espedienti per recuperare l’anno perduto è sbagliata si ragioni in termini di anno guadagnato! Nel seguire le orme del PNRR, sotto le voci sia di “riforme” che di “investimenti” vi è il tentativo di inquadrare i vari argomenti in una visione che ci proietti verso il futuro, sicuramente incerto, ma che preme alle porte con grandissima urgenza.
Alessandra Servidori