In uno scenario in cui la globalizzazione ha raggiunto livelli ormai radicati di diffusione, le conseguenze sulle economie nazionali sono tali da coinvolgere direttamente il mondo del lavoro. E di ciò, tuttavia, non c’è piena consapevolezza tanto che approcci e rivendicazioni restano talvolta ancorate nei porti rassicuranti ma stagnanti delle vetuste ideologie. E’ concettualmente errato, prima ancora che praticamente inopportuno, chiamarsi fuori dalle evoluzioni dell’economia come se fosse possibile immaginare l’esistenza di variabili indipendenti in un meccanismo dai complessi interdipendenti ingranaggi.
Alla base c’è l’idea, ormai sorpassata, che il lavoro possa essere una derivata della politica piuttosto che dell’economia e, dunque, che si possano sostenere le ragioni di una tutela per scelta e non per convenienza di sistema.
La riforma del sistema contrattuale è una delle due vicende emblematiche di quanto sia strutturalmente profonda la divaricazione tra le due opzioni che in questa fase stanno dominando la scena delle relazioni industriali. Potremmo dire – se non apparisse pomposamente altisonante – che siamo ormai ad una distinzione di tipo ontologico che attiene alla stessa radice dell’essere sindacato. Aver attribuito un adeguato peso specifico alla contrattazione di secondo livello nasce dalla consapevolezza che la chiave di volta per la ripresa sia la produttività e che, conseguentemente, lavoro e salario possano crescere a partire dal luogo in cui la ricchezza si produce direttamente. Questa moderna visione assume i temi della competitività e del merito come obiettivi da realizzare anche a tutela dei soggetti più deboli. E’ qui che risiedono senso e significato nuovi di un immutato ruolo sindacale. D’altro canto non è un caso che il declino di un certo sindacalismo confederale europeo vada di pari passo con le stesse difficoltà rese manifeste, ormai da qualche anno, dalla socialdemocrazia europea.
Analogo ragionamento vale per la tormentata vicenda Fiat che ha plasticamente manifestato la priorità del microcosmo aziendale nelle scelte di politica industriale messe in campo dalle imprese che puntano ad un’espansione fondata sulla competitività.
Insomma, se vogliamo affrontare il tema delle differenze che stanno accentuando il solco scavato tra due modi e mondi sindacali sempre più diversi tra loro non si può ridurre il tutto a discutibili schermaglie in merito ai differenziati rapporti con le Istituzioni politiche. Dobbiamo prendere responsabilmente atto che il dissenso ha radici più profonde legate all’analisi della crisi, degli effetti della globalizzazione e del ruolo sindacale. Così come non si può evitare di interrogarsi – ed è soprattutto la Cgil che dovrebbe porsi questo problema – sulle ragioni che hanno determinato la definizione dei cosiddetti “accordi separati”. Se non c’è questa fase di riflessione non ci si può illudere che la soluzione della questione “rappresentanza e rappresentatività” possa sciogliere gli intricati nodi in essere. Bisogna uscire dall’equivoco che si sta generando in questo periodo secondo cui i dissidi tra Cgil, Cisl e Uil si potrebbero risolvere condividendo il sistema delle regole. Convincersi di questo assunto vorrebbe dire confondere gli obiettivi con gli strumenti o, peggio ancora, pensare di coprire le “pudenda” con la foglia di fico della rappresentanza.
Peraltro, regole condivise già esistono sia per la misurazione della rappresentatività sia per l’esercizio della consultazione come, ancora una volta, la stessa vicenda Fiat ha dimostrato.
Ed esistono anche lì – nel mondo metalmeccanico – dove emergono le maggiori – se non uniche – contraddizioni. Come è noto, la Fiom non ha firmato tre degli ultimi quattro rinnovi contrattuali e, successivamente, ha anche dato disdetta dell’accordo che definiva le relazioni tra le tre organizzazioni di categoria. Qui è il vulnus.
A questa complessa situazione, la Cgil ha reagito semplicemente invocando e praticando un continuismo rispetto ai modelli relazionali del 1993, fondando il suo stesso percorso congressuale su questo principio e lasciando il terreno della discontinuità alla Fiom che ha esercitato però la sua scelta in direzione antagonista. Ha risposto, insomma, opponendo uno statico conservatorismo sia ai rigurgiti interni di vetero-ideologismi sia alle sollecitazioni esterne verso la modernità, dimostrando una sostanziale incapacità nella gestione delle trasformazioni sociali ed economiche. Non solo; incollata a questo paradigma della continuità, la Cgil ha seguitato nella riproposizione di patti onnicomprensivi, che pure sono stati sottoscritti insieme in passato, e che oggi non hanno più ragion d’essere poiché logiche di programmazione generale si scontrano con le esigenze flessibili di governo dei repentini cambiamenti a cui occorre rispondere, invece, secondo criteri di specificità.
Collocato in questa dimensione, il dibattito sulla rappresentanza rischia di essere fuorviante perché impedisce di fare, prioritariamente, i conti con la necessità della discontinuità. Peraltro, un sistema di rappresentanza unitaria regge se c’è un elemento di condivisione associativa, altrimenti il rischio è che lo stesso modello elettivo possa entrare in crisi.
Chi conosce la storia del movimento sindacale può ben sperare, tuttavia, che non sia stata imboccata la strada del non ritorno. Ma, di certo, più passa il tempo e sempre meno interessa tener vivo il rapporto tra i due modelli sindacali che, oggi, si contrappongono. Così continuando, le relazioni tra Cgil, Cisl e Uil si riducono a singole esperienze di convenienze tattiche e perdono definitivamente di interesse strategico. L’inversione di rotta è possibile solo se si prende atto della necessità di destrutturare il paradigma della continuità e di costruire, insieme, quel Sindacato riformista di cui la Cgil può ancora essere parte.
di Paolo Pirani, segretario confederale della Uil