La transizione energetica sembra stia perdendo slancio, e non solo: anche il favore dei cittadini verso la svolta green sta scemando, tanto che una recente indagine sostiene che insistere in questa direzione potrebbe addirittura favorire un rafforzamento dei partiti delle destre europee che alla transizione si oppongono. In parallelo, in Italia stenta la realizzazione del Pnrr, si incanaglisce la vicenda Ilva, si teme per la sorte dell’auto, è ancora aperta la partita di Ita, e si procede, con dubbi, verso la cessione di Tim al fondo Kkr. Ciascuno di questi capitoli dovrebbe essere rubricato sotto la voce “politica industriale”, ma è una voce nel nostro paese assente ormai da anni, o decenni. Una assenza che, secondo Paolo Pirani, già sindacalista e oggi consigliere del Cnel, rischia di condannarci al declino.
Pirani, partiamo dalla transizione energetica. A che punto siamo?
Non a buon punto. Intanto, va detto che la svolta green viene molto spesso identificata nella fine del motore a scoppio e nelle sorti magnifiche e progressive dell’auto elettrica. Ma con una impostazione tutta sbagliata: invece che fissare le necessarie tappe di politica industriale ci si è limitati a fissare le date di cessazione: dell’auto a benzina, delle caldaie a gas, e cosi via. Questo suscita timori e irritazione delle popolazioni. Si doveva fare il contrario: indicare la via da percorrere e i risultati che si volevano ottenere, facendo nel contempo le giuste scelte infrastrutturali, industriali, e soprattutto di transizione sociale. Purtroppo prevale l’idea che l’industria sia come l’acqua, cioè va fatta scorrere liberamente. Salvo poi essere travolti dalle inondazioni.
Il problema dunque è di strategia?
Di strategia e di concretezza. Nei piani del governo si parla di pannelli solari, di batterie, ma non si danno indicazioni concrete. D’altra parte, si è rinunciato a fare dell’Europa un player dell’innovazione tecnologica, lasciando il campo ad Asia e America. Quanto all’Italia, ci stiamo riducendo a produzioni di nicchia, mentre vengono a mancare assett fondamentali come l’auto, che è stata il traino del boom economico: oggi l’automotive si sta riducendo ai minimi termini. A differenza di quanto hanno fatto la Francia e gli Usa, che sull’auto hanno imbastito fortissime politiche industriali, da noi si lascia correre. Per non dire di un altro assett strategico in cui eravamo fortissimi come l’acciaio, vedi la sorte dell’Ilva: tanti piani, tante promesse, ma tutto si conclude sempre con ‘bambole, non c’è una lira’. O del settore aereo: ci abbiamo buttato miliardi per anni, alla fine abbiamo perso anche la compagnia di bandiera.
Sull’auto i sindacati stanno lanciando allarmi da tempo, ma pare che nessuno li ascolti.
Sull’auto si sta consumando una follia. I grandi player a un certo punto hanno detto stop al motore a scoppio, ma se vuoi restare sul mercato devi avere un piano: creare una struttura per l’elettrificazione, un piano sociale per evitare catastrofi occupazionali, organizzare la capacita di produrre tutta una serie di assett. Poi, si poteva anche pensare di fare una transizione diversa, per esempio puntando sui biocarburanti, che l’Italia produce. In sintesi: ci voleva una idea di gestione di questa transizione, che purtroppo è del tutto mancata. E senza una politica industriale sulla transizione energetica siamo destinati a un declino veloce.
Se i nostri assett migliori sono alla canna del gas, cosa ci resta per non soccombere?
Ci resta ancora abbastanza. L’industria della difesa, l’Eni, la farmaceutica, sono oggi i nostri assett più forti. Il governo dovrebbe mettere assieme il pool dei maggiori driver e affrontare con loro il tema dello sviluppo. Tra l’altro abbiamo anche numerosi eccellenti brevetti su carburanti verdi e per lo sviluppo dell’economia circolare. Ma se non c’è dietro un governo che dia indicazioni rischiamo di sprecare tutto: a partire dal Pnrr, i cui fondi sono stati frammentati tra gli ottomila comuni. E con tutto il rispetto, sono molto lontani da quello che io chiamo un progetto di politica industriale. Oltretutto, oggi il contesto dei conti pubblici, dell’inflazione, del rapporto deficit Pil, ci obbligherebbe a produrre ricchezza: ma in queste condizioni non vedo come.
Il governo dice che intende procurarsi almeno 20 miliardi da nuove privatizzazioni, che ne pensa?
Le privatizzazioni sono smanie ricorrenti. E quasi mai sono andate a finire bene, da Telecom ad Autostrade. L’unica che siamo riusciti a impedire è Versalis, e oggi diciamo per fortuna, perché sta producendo risultati eccellenti. Per il resto, su Tim siamo agli ultimi atti di una privatizzazione fallita, quella di Telecom, appunto, che ha dimostrato tutta l’inadeguatezza del capitalismo italiano, incapace di reggere la prova. Ma anche i governi si sono trovati incapaci di affrontare questo tema, e nel frattempo la politica europea si è spostata sul tema del massimo risparmio, quindi sono venuti a mancare anche investimenti e progettualità. Ora abbiamo la beffa che un fondo statunitense, Kkr, da un lato chiude Magneti Marelli e dall’altro si appresta a conquistare una parte strategica del nostro sistema di Tlc. Senza che il governo nemmeno si sogni di affrontare il problema base che si dovrebbe affrontare, cioè quello della banda ultraveloce come servizio universale per il paese.
Quindi ha ragione il ministro Urso, quando se la prende con le multinazionali estere?
Le multinazionali non sono il male, ma devono rispondere alle regole sociali dei paesi dove operano e investono. La sensazione è che non si permetterebbero altrove quello che invece si permettono in Italia, e bisognerebbe chiedersi perché.
Il capitalismo italiano, lei dice, non è stato all’altezza delle sfide. Ma anche la classe politica non sembra granché meglio. Che maledizione è la nostra?
Purtroppo abbiamo una classe politica che ha smarrito le risorse intellettuali e progettuali per essere all’avanguardia. Una volta si studiava il modello italiano, ora anche la nostra moda è tutta francese. C’è un livello di impreparazione rispetto alle dinamiche dell’industria che è spaventoso. Siamo il paese delle occasioni mancate.
Per quale motivo c’è questo analfabetismo industriale di ritorno?
Una volta avevamo dei veri e propri centri di produzione di classe dirigente, dalla Banca d’Italia all’Olivetti, che producevano anche cultura industriale. Ma oggi non c’è più niente. Inoltre, la disintermediazione ha interrotto il rapporto della politica coi corpi intermedi, indebolendo, anziché rafforzando, entrambi. Ma le transizioni che abbiamo di fronte non si possono affrontare senza l’apporto dei corpi intermedi.
Siamo destinati al declino?
C’è questo rischio e occorre averne consapevolezza.
Come se ne esce?
O ci si ridefinisce nel contesto internazionale, non solo come Italia, ma come Europa, oppure saremo schiacciati da colossi come America, Cina, Africa.
Anche Africa?
È un continente in forte crescita demografica, ricco di materie prime e pregiate, dove si sta giocando una gigantesca partita geopolitica. La cacciata dei francesi, per dire, è solo un esempio di quello che sta accadendo. Grandi potenze si stanno dividendo un continente cruciale e strategico. L’Europa, per non essere tagliata fuori, dovrebbe ridefinirsi nei confronti dell’Africa, in un rapporto di sviluppo reciproco, invece di continuare a litigare sulla collocazione dei migranti.
Il piano Mattei di cui parla spesso la premier Meloni ha quindi un senso?
Certamente si, ma non mi pare abbia una classe politica all’altezza di realizzarlo. E poi per realizzare un piano Mattei è l’Europa che deve muoversi: il mondo sta cambiando, se non se ne prende atto siamo finiti. Purtroppo mi pare che qui in Italia, cosi come in Europa, si ragioni su un orizzonte al massimo settimanale, manca la capacità di fare ragionamenti strategici che guardino a orizzonti più ampi. Ma c’è una realtà dei fatti che prima o poi costringerà tutti a farci i conti. Il sistema così com’è non può reggere, e penso che lo vedremo chiaramente dopo le elezioni europee.
Nunzia Penelope