Paolo Pirani, le scosse del terremoto elettorale continuano anche in questi primi giorni di consultazioni al Quirinale: non si vede con chiarezza che tipo di governo potrà formarsi, ne’ se si riuscira’ a farne uno. I sindacati si troveranno a fronteggiare, nei prossimi mesi, uno stravolgimento del quadro politico e un governo che, comunque vada, quasi certamente non sara’ vostro ‘’amico’’. Come pensate di comportarvi?
Il movimento sindacale ha saputo reggere di fronte a tutti i grandi stravolgimenti italiani e internazionali che si sono determinati dai primi anni Novanta in poi: partiti scomparsi, altri che nascevano, nuovi equilibri politici. Il nostro radicamento sociale ci ha consentito di mantenerci sempre come un valido rappresentante di pezzi importanti della società. Questo ci consentirà di affrontare anche i cambiamenti in atto nel quadro politico: mantenendo sia la nostra rappresentanza, sia la capacità di affrontare i nuovi interlocutori. Poi, vedremo se si potrà con loro aprire un dialogo, o se sarà necessario ricorrere ad altri strumenti.
A quali strumenti si riferisce?
Per esempio agli scioperi degli anni Novanta contro Berlusconi sulla riforma delle pensioni. O a quelli che abbiamo fatto contro quasi tutti i governi, compreso quello di Prodi, quando non eravamo d’accordo con scelte politiche che riguardavano il mondo del lavoro.
Una minaccia preventiva nei confronti del prossimo esecutivo, qualunque esso sarà?
Noi veramente siamo per il dialogo. Il paese è appena uscito da una crisi tremenda, che è ancora dietro l’angolo. Sono aumentate le diseguaglianze, le ingiustizie, il disagio. C’e’ bisogno di coesione, non di scontro. E noi rappresentiamo la coesione, come dimostra l’accordo con la Confindustria sui contratti e le relazioni industriali. Un buon viatico per le fasi successive, che non saranno semplici, ci rendiamo conto.
Non saranno semplici anche perché le forze politiche che hanno vinto le elezioni propongono ricette che, se sarete chiamati a confrontarvi, potrebbero causarvi diversi imbarazzi. Penso all’abolizione della legge Fornero, alla flat tax, o al reddito di cittadinanza. Della riforma Fornero, per esempio, non siete mai stati entusiasti nemmeno voi.
Vero, ma noi non facciamo demagogia. Sappiamo bene che occorre fare i conti anche con i conti, appunto. E che occorre stare in linea con l’Europa. Sulle tre questioni che sono state al centro della campagna elettorale, appunto Fornero, flat tax e reddito di cittadinanza, vedremo a cosa ci troveremo realmente di fronte. Già oggi mi sembra che gli accenti siano diversi rispetto alla campagna elettorale.
A cosa è dovuto, secondo lei, questo trionfo dei partiti populisti?
A un insieme di cose: alcune sottovalutazioni, altre sopravvalutazioni. In estrema sintesi: il paese è uscito sconquassato dalla crisi, ma questa cosa non e’ stata compresa dal governo, che ha pensato bastassero i numeri a dimostrare che stava operando bene. Trascurando quell’ampio disagio diffuso che i numeri non rappresentano, ma che c’era nel paese.
Tuttavia i numeri dicono che il paese sta meglio di cinque anni fa. Lo dicono anche i dati recenti sull’occupazione. I posti di lavoro aumentano, e’ innegabile.
Ma sono posti di lavoro molto diversi da quelli pre -crisi. E’ diverso avere un lavoro stabile e pagato regolarmente, dall’avere un lavoro giorno per giorno. Io vedo che c’e’ un disagio forte, così come è forte e pesante il problema dell’occupazione, il dilagare di lavori poveri. Per questo e’ necessario tendere a una ricomposizione del lavoro, oggi troppo frammentato e scomposto. Tra l’altro, questo è terreno di coltura anche per incidenti mortali a ripetizione, come abbiamo visto negli ultimi giorni: avvenuti tutti in imprese in appalto con lavoratori precari.
Questo disagio, queste storture, sono solo colpa della politica, dei governi, o non piuttosto anche delle imprese?
Certamente le imprese hanno una grossa responsabilità. Negli anni, si e’ preferito investire in finanza piuttosto che in azienda, e questo e’ causa del mancato sviluppo, della caduta degli investimenti. Bisogna tornare a crescere, anche sul mercato interno, perché a tenere su l’economia e il lavoro non bastano certo le imprese che esportano.
Il fatto che l’Italia non cresca però non è un problema recente. Negli ultimi trent’anni la crescita media del nostro Pil è stata dell’uno per cento. Perché, secondo lei?
Una delle cause è l’accordo del 1993. Il congelamento dei salari per ridurre l’inflazione ha comportato anche il calo della produttività. Quell’accordo andava bene se fosse durato un tempo limitato, come soluzione di emergenza; invece si e’ protratto negli anni, troppo a lungo. Il risultato è stato salari bassi, scarsa produttività, mancata spinta verso l’innovazione, e quindi crescita risicata e stenta.
E come si rimedia, oggi?
Aumentando i salari.
Questo è compito del sindacato, non della politica.
Infatti. Ed è quello che abbiamo praticato con gli ultimi rinnovi contrattuali, e che praticheremo anche in futuro, sempre di più.
Non temete le conseguenze di un governo formato da forze politiche per le quali la disintermediazione è una parola d’ordine? Potrebbe causare un indebolimento del sindacato?
Tutti quelli che hanno praticato la disintermediazione hanno fatto una brutta fine. Vedi Matteo Renzi. Quanto ai Cinque Stelle, anche Virginia Raggi ha dovuto trattare con i sindacati, se voleva provare a governare Roma. E così anche tutti gli altri sindaci del Movimento, con cui i sindacati territoriali si confrontano ogni giorno. Quanto alla Lega, con Roberto Maroni alla Regione Lombardia abbiamo avuto sempre ottimi rapporti. Al di là degli slogan, occorre vedere nel concreto cosa accadrà. Io sono convinto che come sindacati abbiamo un radicamento tale che non si può proprio pensare di non confrontarsi con noi e con il nostro progetto.
Un progetto che consiste in cosa?
Una riforma fiscale che riduca le tasse sul lavoro, un sistema previdenziale che guardi ai giovani e al loro futuro, uno sviluppo basato su investimenti pubblici e privati, con un ruolo della Cassa depositi e prestiti meno casuale, una politica che consenta lo sviluppo della domanda interna, una politica salariale attiva.
Le ricette del futuro governo pero’ sono opposte alle vostre: il reddito di cittadinanza, per esempio, ha a poco a che fare con quella ricomposizione del mondo di lavoro che e’ nei vostri obiettivi.
Il reddito di cittadinanza è una pezza, non una soluzione. Come del resto lo era il salario minimo legale del Pd. Non hanno le idee chiare, e del resto per ora parlano solo di alleanze. Quando il governo ci sarà, lo valuteremo.
A proposito di alleanze: lei condivide la scelta del Pd di stare all’opposizione?
Sono d’accordo che stia all’opposizione, ma senza dimenticare che il Pd e’ un partito di governo, e deve tendere a tornare al governo. Quindi deve qualificare la sua opposizione, dire qual e’ la sua idea: di governo, di paese, di politica estera, eccetera. E dovrebbe iniziare dicendo qual e’ la sua idea di Def. Non intendo come governo Gentiloni, ma come partito.
Insomma, non siete preoccupati?
No, non sono preoccupato. Sono abbastanza sicuro di me, di noi come forze sociali, e della nostra capacità di capire le persone e quindi reggere gli impatti.
Non vi turba nemmeno il fatto che una gran parte della base sindacale, dei vostri rappresentati, abbia votato per il Movimento Cinque stelle o per la Lega?
E perché mai dovrebbe turbarci. Anche nel 1994 gli operai del nord hanno votato Lega, ma si sono tenuti strette le tessere dei sindacati confederali. La scelta politica e l’appartenenza sindacale sono due cose diverse e distinte, da decenni. E l’una non nega l’altra.
Nunzia Penelope