E’ indiscutibile che a partire dagli anni trenta del Novecento la rivoluzione manageriale ha cambiato il mondo occidentale, stabilendo il principio che la conduzione di un’ impresa non necessariamente deve coincidere con i proprietari. Il benessere e lo sviluppo di un’azienda richiedono cure e competenze specifiche che sovente si trovano al di fuori del perimetro produttivo. E qui nasce il primo problema. La struttura del nostro capitalismo è eminentemente familiare. Si è parlato addirittura, e a ragione, di familismo amorale, che in questo caso significa una sorta di deresponsabilizzazione delle famiglie imprenditoriali dai propri doveri. Fenomeno assai diffuso nei passaggi generazionali, quando i figli non intendono proseguire l’opera iniziata dei padri, ma semplicemente godersi i frutti del lavoro e delle fatiche altrui. Il fenomeno, poiché sembra avere una particolare rilevanza soprattutto nelle medie imprese, cioè dove sono concentrate le eccellenze del nostro tessuto produttivo, minaccia alla radice la stabilità generale del sistema, ingenerando tra l’altro un’ulteriore modalità acquisitiva da parte dei capitali stranieri.
Il secondo problema, paradossalmente, può determinarsi quando i figli proseguono l’attività imprenditoriale dei padri. Infatti, l’altra caratteristica del nostro tessuto produttivo è la frammentarietà, la polverizzazione delle imprese in una sterminata galassia di piccole e piccolissime imprese che, oltre a non raggiungere la massa critica necessaria, ritengono la figura del manager un inutile orpello. In questo tipo di aziende, infatti, si ritiene più che sufficiente l’ impegno personale e diretto della proprietà, tant’è che persino il commercialista viene ritenuto un costo, che soltanto una burocrazia oppressiva ed onnivora rende necessario. In realtà, sarebbe indispensabile una presenza più pervasiva dei manager nella nostra economia. Manager moderati ed equilibrati, che riescano a stimolare l’impegno collettivo e la partecipazione dei lavoratori attraverso le loro doti unanimemente riconosciute di saggezza.
Un manager, quindi, che assomigli piuttosto ad un filosofo, capace di stimolare e penetrare la profondità dell’animo umano, di cogliere le motivazioni reali alla base di certi comportamenti e di certe azioni umane. Questo perché non va mai dimenticato che, al di là dei progressi tecnologici e di organizzazioni del lavoro sempre più scientifiche che consentono una maggiore produttività, al centro di tutto rimane sempre la persona. L’ illusione tecnocratica di sostituire l’uomo con le macchine non ha fatto una grande strada.
Dunque un manager umanista, che sia in grado di esercitare una leadership riconosciuta, non in virtù di un investimento autoritario e gerarchico, ma di un’autorevolezza e competenza indiscutibili. Doti non facili da acquisire e che i master più sofisticati non sono in grado di rilasciare. Siamo convinti che un ruolo importante della crisi dell’ impresa contemporanea risieda anche in questo, nell’incapacità di una parte del management di ascoltare e quindi motivare adeguatamente le persone che lavorano nelle aziende, che vengono vissute come luoghi estranei ed ostili alla dimensione soggettiva.
In questo senso, ci pare di poter dire che il manager vero, quello autentico, ha un compito fondamentale: avvicinare i luoghi di lavoro ai lavoratori che in esse trascorrono una parte importante della loro vita. Le aziende hanno bisogno non di guerrieri, che per essere tali devono essere spregiudicati e con una buona dose di avventurismo, ma di “pacificatori” che sappiano conciliare capitale e lavoro e creare un nuovo armonioso rapporto. In questo contesto, ripensare oggi la lezione di Adriano Olivetti, per noi, ha un senso profondo e di affascinante attualità.
Quell’esperienza relazionale all’interno del mondo produttivo ha esaltato e valorizzato la funzione di ogni attore del rapporto di lavoro. Proprietario, manager, impiegato ed operaio hanno vissuto l’essenza di una partecipazione responsabile seppur nel rispetto delle differenti prerogative e dei diversi ruoli. Quella vicenda non può e non deve appartenere alla Storia, non può diventare oggetto solo di dibattiti sull’archeologia industriale. Va recuperata sino in fondo ed applicata nell’oggi. E la figura di manager, di cui la nostra economia ha bisogno, potrà esserne illuminata riacquistando centralità nella responsabilità di guidare la singola azienda e, con essa, il Paese tutto verso il futuro.
Paolo Pirani, segretario confederale Uil