Abbiamo salutato appena qualche giorno fa Franco Marini, oggi ci ha lasciati Pietro Larizza. A lungo segretario generale della Uil, poi presidente del Cnel, era uno dei padri nobili del sindacato. Non aveva vissuto da primo attore le battaglie della scala mobile degli anni 80, ma era della pattuglia che strinse con Carlo Azeglio Ciampi lo storico accordo del 1993, quello che Gino Giugni definì non a caso la nuova costituzione del lavoro, quando partì la fortunata quanto breve stagione della concertazione, dove il sindacato aveva un ruolo di primo piano. Per tutti quegli anni novanta Larizza con i due Sergio, Cofferati della Cgil e D’Antoni della Cisl, formò un trio molto particolare, soprattutto perché il sindacato era allora molestato da una serie di incomprensioni e lotte interne che dividevano in profondità il movimento dei lavoratori. Non c’erano più le contrapposizioni che avevano avuto il loro il suo culmine con l’accordo di San Valentino, quelle tensioni erano state superate, ma era una stagione inquieta, nel corso della quale le strade da battere si moltiplicavano, le divisioni la facevano da padrona, le confederazioni tendevano pericolosamente ad andare ciascuna per la propria strada. Anche perché erano caduti con Tangentopoli i grandi partiti di riferimento, la Dc e il Psi, e l’ex Pci viveva un momento di difficile passaggio: le confederazioni sindacali, che con i partiti e per i partiti politici erano nate e si erano rafforzate, vivevano una stagione fatta di autonomia ma anche di disorientamento. Cofferati e D’Antoni litigavano spesso e volentieri, pur vicendevolmente stimandosi, ma il punto di riferimento restava sempre Larizza.
Era lui a mediare tra le diverse posizioni, a cercare il compromesso, a trovare un accordo che facesse tornare il sindacato sulla stessa strada. Non era facile, perché il carattere forte dei leader di Cgil e Cisl lo costringeva a fatiche improbe. Ma era quella la sua misura, era la cosa che gli riusciva meglio, proprio perché da socialista sapeva che solo con la mediazione e l’intelligenza si possono mettere d’accordo le persone che si trovano a difendere tesi contrapposte. E non è un caso che in quegli anni le battaglie più forti all’interno del sindacato si combatterono proprio sul tema, sempre spinoso, dell’unità. Non era più all’ordine del giorno quella organica, tramontata negli anni Ottanta, ma il mondo del lavoro esprimeva un bisogno di unità forte. Erano i lavoratori, forse ancora di più l’esercito dei delegati, quelle centinaia di migliaia di militanti che avevano vissuto in prima persona le divisioni laceranti nella guerra della scala mobile ed esprimevano adesso un forte un desiderio di unità. Che però non era facile né vicina, e solo l’impegno e il buon carattere di Pietro Larizza riuscivano a trovare le vie dell’accordo.
Non era stato facile per Larizza nemmeno guidare la Uil, specie nei suoi primi anni. Non perché non conoscesse la confederazione, della quale, prima di assumerne la guida, era stato per anni segretario organizzativo, e ne aveva quindi in mano le chiavi, ma perché prese il posto del segretario generale più amato, Giorgio Benvenuto, che era stato per quattordici anni al vertice della confederazione, e tanto ne rappresentava l’anima da esser chiamato “signor Uil”. Pietro non si spaventò del compito però, lo assunse con modestia, senza colpi di teatro, ma con una condotta quotidiana di grande realismo e capacità. Del resto, era calabrese, testardo quanto mai, deciso ad andare avanti comunque. Mancherà al sindacato, anche se forse non se ne accorgerà, distratto da compiti che negli anni della disintermediazione si stanno facendo sempre più difficili. Ma proprio per questo alla lunga si sentirà la sua mancanza, la sua determinazione al riformismo, la sua indomita ricerca di un ruolo alto del sindacato.
Massimo Mascini