Il cosiddetto Piano Colao è l’ennesima occasione mancata: un’occasione mancata, fondamentalmente, per una domanda di fondo a cui non si vuole rispondere (che è poi il punto derimente anche di questa fase politica e dei suoi protagonisti a partire da chi ha responsabilità di Governo).
Preso atto che un’occasione, seppur legata al dramma del Covid, così importante – per la quantità di risorse messe in campo – non ricapiterà presto per il nostro Paese, si vogliono o no affrontare i nodi di fondo del nostro modello di sviluppo?
Un modello di sviluppo che ha visto ben prima del Covid aumentare le disuguaglianze sociali, le inefficienze (istituzionali, fiscali, ecc.), le paure e la rabbia, proprio perché abbiamo avuto “troppo poco pubblico” e troppo “capitalismo straccione”.
Ci si vuole attrezzare o no, cioè, per affrontare una riforma di sistema che rompa vecchi privilegi e parassitismi, scommettendo su un modello sociale, ambientale ed economico, più equilibrato, dove accanto a nuovi doveri convivano nuovi (e vecchi) diritti?
Perché il punto di partenza è proprio questo: capire se si condivide oggi l’analisi di fondo.
Analisi, la mia, secondo la quale abbiamo toccato il fondo perché abbiamo avuto “troppo poco pubblico” – inteso come Stato Innovatore, Stato Produttore (sia in senso industriale stretto, sia in senso di produttore di lavoro attraverso il nuovo welfare), Stato Regolatore (sia dei mercati che dei diversi livelli istituzionali) e Facilitatore (PP.AA.) – e abbiamo pagato il conto a un “capitalismo troppo straccione”, un capitalismo che non ha investito (di suo) in innovazione, crescita dimensionale di impresa, partecipazione e qualificazione dei lavoratori; che ha preferito, in sostanza, la finanza alla produzione e la rendita agli investimenti.
Il Piano Colao, al di là di belle parole e di un po’ di efficientismo pure apprezzabile per riformare le PP.AA (tranne omettere come si pagano tali riforme, in quale contesto istituzionale si inseriscono e soprattutto quale dovrebbe essere il ruolo degli stessi lavoratori e intellettuali-tecnici dello Stato, per dirla alla Gramsci) è, per questa risposta non data, una minestra riscaldata.
Una minestra che ripropone un combinato cosi hard di liberismo, non conoscenza reale di molti settori (pensiamo, per quanto ci riguarda, alle costruzioni), assenza di visione, svilimento del ruolo delle parti sociali, come non lo leggevo da tempo.
Scrivo ciò con l’amarezza di chi, pur consapevole che il sentiero è stretto e che differenze enormi vi sono con passati contesti in cui pure sono maturati anche accordi sociali di notevole significato, ritiene necessario provare, fino in fondo, a cogliere l’occasione che abbiamo come Paese, per una reale modernizzazione che riattivi la mobilità sociale, già da troppo tempo bloccata.
Quanta delusione nel leggere, per esempio la proposta di trasformare, di fatto, la contrattazione collettiva in codici di auto condotta lasciati al buon cuore del primo che passa.
Quanti strafalcioni (che però tali non sono in realtà) scritti e riproposti sul Codice deli Appalti, fingendo di non sapere che già il Codice attuale recepisce le Direttive Comunitarie e le adatta ad un Paese che ha una dimensione di impresa molto più bassa della media europea, ha il tasso di illegalità e lavoro nero più alto, ha un fenomeno di infiltrazioni criminale noto. E che trascura il motivo principale di rallentamento delle grandi opere che è stato legato, da un lato, al fallimento di molti player (che hanno fatta tanta finanza e poche costruzioni) e dall’altro alla mancata qualificazione delle stazioni appaltanti, che nel tempo hanno perso 15 mila tecnici.
Per di più – e noi siamo i primi che vogliamo semplificare – quanta leggerezza nel pensare che la soluzione allo sciopero della firma sia la proposta per cui il dolo (e ci mancherebbe altro) sia oggetto di rivalsa, ma la colpa grave (per incompetenza, per esempio) sia “scudata”.
E potrei continuare, infierendo sul fatto che si confondono i modelli commissariali (Genova, Expo) con le norme di accelerazione e facilitazione (l’alta velocità Napoli-Bari).
Sul lavoro nero, poi, la Task Force sembra non sapere che vi sia un fenomeno diffuso di caporalato e che sono già a disposizione strumenti rapidi, efficaci e digitali che andrebbero estesi e rafforzati (dalla Banca dati Appalti dell’INPS al Durc per Congruità) se solo vi fosse la giusta volontà politica. In un paese dove solo un’azienda su 10 mediamente è oggetto di controllo (o fiscale o previdenziale o sanitaria), per di più una volta ogni 7,5 anni (ed è ovviamente una media del pollo), avendo totalmente depotenziato sia le funzioni consulenziali che di presidio del territorio dei vari enti pubblici.
Confidare quindi su principi di autocertificazione o peggio di premialità (e quindi concorrenza sleale) vuol dire non conoscere il sistema delle PMI nei nostri settori e sarebbe uno schiaffo alle tante imprese serie che ci sono. O peggio, in pieno furore liberista, nascondere la polvere sotto il tappetto, per non dare un giudizio anche sulle responsabilità della classe imprenditoriale.
Ma mi fermo qui: il punto di fondo – inutile girarci intorno – è che nel documento Colao non si accetta l’idea di un pubblico che possa essere soggetto che opera direttamente (pensiamo alla Fibra ottica per fare solo un esempio e al ruolo di un’unica Open Fiber) e che comunque regola i diversi mercati (pensiamo a quello dei servizi alla persona e non solo), attrezzandosi (recuperando cioè visione, strumenti, assetti istituzionali, capacità di pianificazione e, anche, di collaborazione pubblico-privato, modello Mise che torna ad essere cabine di regia o una Fraunhofer italiana) e ricominciando, per esempio partendo da un impegno delle aziende ancora a partecipazione pubblica, a programmare nel breve e medio termine linee di sviluppo per il nostro Mezzogiorno.
Per questo non si assume mai, esplicitamente, la creazione di lavoro, attraverso una nuova strategia di sviluppo, come un obiettivo strategico che passi, positivamente, dal ruolo dei lavoratori dentro e fuori le aziende e le catene lunghe del valore (quando va bene possono al massimo essere soggetti di una formazione durante i periodi di non lavoro, tema in sé anche giusto… figuriamoci).
E quindi non si considera la democrazia economica (che per la nostra Costituzione vuol dire attuazione dell’articolo 39 e dell’articolo 46) come una grande occasione per tenere insieme un po’ più di giustizia sociale con trasparenza e modernizzazione.
Tutto ciò non ha minimamente cittadinanza nel contributo dei tecnici perché al sistema bancario, al sistema delle aziende, a chi ha sfruttato la logica del massimo ribasso e della via bassa allo sviluppo non viene imputa responsabilità alcuna.
Per questo ritengo che se i contributi della Task Force guidata dal Dott. Colao sono l’antipasto di un possibile confronto di merito, siamo nei guai.
E scrivo ciò consapevole di un vuoto politico che vi è, di un non detto (o di un non “possiamo dirlo”, che forse è peggio) che rischia di essere l’equivoco di fondo anche dentro l’attuale maggioranza di Governo. Maggioranza di governo che, se vuole veramente profonde riforme e una modernizzazione socialmente e ambientalmente orientata, prima o poi con questo punto politico dovrà fare i conti.
Alessandro Genovesi – Segretario Generale Fillea Cgil