Finita la concertazione il sindacato non potrà non concentrare la sua attenzione sui processi innovativi, che possono realizzarsi anche coinvolgendo i lavoratori senza la mediazione dei sindacati, ma con più fatica e meno risultati. Luciano Pero, che insegna Organization Theory and Design al Politecnico di Milano, trae dalla sua esperienza di analisi dei processi produttivi italiani il suo convincimento forte sul futuro del sindacato italiano.
Pero, avremo ancora concertazione in Italia?
Mi sembra difficile. Capisco che i sindacati intervengano sulle singole riforme, soprattutto su quelle che hanno attinenza con il lavoro. Ma una concertazione di carattere globale è un episodio abbastanza raro. In occidente nessun governo tratta la politica economica con i sindacati. Non lo hanno fatto nemmeno i socialdemocratici tedeschi. La pretesa di fare della concertazione una politica strutturale di lungo periodo mi sembra quindi abbastanza immotivata.
Che deve fare allora il sindacato? Tornare in fabbrica? O concentrarsi sui contratti nazionali?
Ragionare su queste due opzioni non ci porta da nessuna parte. Per capire il futuro del sindacato, e del nostro paese, dobbiamo partire dalla realtà del sistema economico produttivo italiano.
E questo cosa ci dice?
Studiandolo ci si accorge che il nostro sistema produttivo ha un bisogno fortissimo di innovazione, perché da 15 anni siamo seduti, di innovazione se ne è fatta davvero troppo poca. Serve all’industria che esporta, ma anche a quella che insiste sul mercato nazionale, serve al settore dei servizi, al turismo e all’agricoltura. A tutti.
Cosa ne deriva per il mestiere del sindacato prossimo venturo?
Per lo più si pensa che il sindacato metta i bastoni tra le ruote dell’innovazione. Ed è un’affermazione vera nell’approccio tradizionale, conflittuale, dove al difesa dei lavoratori si fa con vincoli, mettendo i famosi lacci e lacciuoli alla libertà di impresa.
Allora bisogna guardarsi dal sindacato.
Credo che oggi la situazione sia completamente diversa. Perché l’innovazione ha tante forme, ma un elemento comune, il coinvolgimento dei lavoratori. L’innovazione, per le sue caratteristiche strutturali, richiede una profonda partecipazione attiva, convinta, intelligente dei lavoratori ai processi di innovazione. E anche ai lavori nuovi che scaturiscono da questa innovazione.
L’apporto dei lavoratori quindi è indispensabile.
Sì, se si sommano le tecnologie tradizionali più diffuse, quelle nuove dei settori, i nuovi materiali, i robot, i prodotti, i servizi, e le nuove relazioni con il cliente, tutto ciò richiede un lavoro intrinsecamente più intelligente e quindi più partecipazione di prima.
Si può però coinvolgere i lavoratori anche senza passare per il sindacato.
Questo è vero, tanto che per esempio negli Stati Uniti un filone manageriale è stato costruito proprio sul coinvolgimento dei lavoratori senza la mediazione del sindacato. E’ una realtà molto precisa, studiata e attuata.
Ma non è la cosa migliore?
A mio modo di vedere no. Innanzitutto, questo scavalcamento del sindacato può produrre conflitto e resistenze, e questo porta delle complicazioni, specie in alcuni paesi. Poi c’è da tener presente che nella realtà industriale, fatte salve alcune situazioni apicali, il lavoratore è sempre più debole dell’impresa e quindi c’è il pericolo di avere un coinvolgimento paternalistico da parte delle imprese. Tanto più in Italia che ha una tradizione di gestione gerarchica, verticistica dell’impresa, di una realtà fatta di piccole imprese a gestione familiare.
Lei pensa che sia meglio quindi coinvolgere il sindacato nell’attuazione dei processi innovativi?
Sì, credo che se il sindacato a livello aziendale viene coinvolto nell’innovazione, questa è più veloce e raggiunge i suoi risultati. Faccio due esempi. Il primo riguarda l’Arneg, un’azienda di Padova che fabbrica frigoriferi per supermercati. Questa azienda ha messo a punto un progetto innovativo, che però, dopo aver raggiunto metà degli obiettivi che si era prefissato, si è impantanato. Poi sono state coinvolte le Rsu e così il 100% dei lavoratori e questo ha portato a sbloccare il progetto e a realizzare il 100% degli obiettivi. E tutto ciò senza spendere una lira in più.
L’altro caso?
Riguarda la Chrysler. In Italia la Fiat applica da 8 anni il sistema Wcm, alcune fabbriche, come quella di Pomigliano, sono più avanti, altre sono ancora a metà del guado. Bene, negli Stati Uniti la Chrysler in soli 4 anni coinvolgendo in maniera forte la Uaw, il sindacato americano dell’auto, ha raggiunto gli stessi risultati, forse anche di più, nella metà del tempo. E gli stessi dirigenti dell’azienda riconoscono che questo risultato è dovuto all’impegno dei sindacati di base. Addirittura hanno fatto una scuola per studiare il sistema Wcm, con una gestione mista tra sindacato e azienda, con alla presidenza un sindacalista. Studiano le applicazioni di questo sistema e tutti i sindacalisti di base sono adesso esperti del sistema. Magari ci fosse qualcosa del genere in Italia.
Non partecipano gli italiani?
Conosco tante Rsu e tanti operatori e molti di loro sono esperti, entrano nel merito, ma non a questo punto. Per questo dico che è necessario uno sforzo duraturo di formazione su questi temi.