Nel ruolo che ricopre di fatto di “primus inter pares” Maurizio Landini, a Bologna dalla kermesse della Cgil ha indicato i contenuti di una possibile (come l’ha definita Draghi) “prospettiva economica condivisa”. Nell’elenco, insieme al fisco, agli ammortizzatori sociali, alle pensioni, al rinnovo dei contratti, fa il suo ingresso tra le disponibilità, anche il salario minimo. A quanto sembra, i sindacati pongono – soprattutto la Cgil, una sola condizione: che arrivi in porto una legge sulla rappresentanza, in modo che sia possibile stabilire chi sia legittimato a trattare e a stipulare. Sappiamo che in proposito vi sono stati vari tentativi di regolare la materia, tra i quali un Testo Unico, di origine negoziale, in verità in istruttoria da anni. Da ministro, Nunzia Catalfo, si era spinta molto avanti con un disegno di legge, all’esame della Commissione Lavoro del Senato, che aveva colto sia l’esigenza dei sindacati di estendere i contratti a tutti gli appartenenti alla categoria di riferimento, grazie alla disciplina della rappresentanza, sia il varo di un salario minimo legale che avrebbe raggiunto la platea dei soggetti privi di una copertura contrattuale. Il fatto è che una legge sulla rappresentanza è molto complessa da realizzare. Innanzi tutto, l’iter legislativo sarebbe vigilato da un implacabile Ghino di Tacco, appollaiato sull’articolo 39 Cost.: una norma da sempre inapplicata ormai divenuta inapplicabile, perché nell’immediato dopoguerra in assenza di una legge attuativa di quell’articolo, l’ordinamento intersindacale prese un’altra strada fondata sull’autonomia contrattuale, l’articolazione dei livelli di contrattazione e soprattutto sul principio del reciproco riconoscimento tra le parti che consente – in un regime di diritto comune – di scegliersi i propri interlocutori. A voler riportare questo ordinamento all’interno di un perimetro legislativo, sarebbe come imporgli una identità di genere diversa dalla sua. Chi insiste ancora per la legge – nella convinzione di risultare maggiormente rappresentativo ai sensi delle disposizioni previste – dovrebbe chiedersi perché quell’intesa – che le parti vollero chiamare persino Testo Unico e che nel 2014 raccolse le intese siglate negli anni precedenti – resti tuttora sulla carta, sia pure nella sua dimensione privato-pattizia, che non ha certo la pretesa di attenersi ai vincoli di una norma di legge. Se qualcuno volesse farsi un’idea di come dovrebbe essere scritta una legge sulla rappresentanza potrebbe andare a cercare tra gli atti della XIV legislatura della Camera il progetto di legge (AC 57) a prima firma di Pietro Gasperoni (già segretario della Cgil delle Marche) col quale si tentò di dare attuazione all’articolo 39 ottenendo l’approvazione di uno dei rami del Parlamento per cadere a fine legislatura ed essere poi dimenticato. Il Testo Unico del 2014 si rivolge alla platea delle aziende collegate e dei lavoratori raggiunti dai sindacati; una legge non potrebbe accontentarsi di operare in questi territori, che sarebbero comunque parziali e minoritari rispetto alla platea coinvolta nei risultati della contrattazione. Chi scrive è convinto che il governo non si andrà a impelagare, per ora, in una legge sulla rappresentanza, che peraltro non servirebbe, per evidenti motivi, a togliere di mezzo i c.d. contratti pirata (firmati con l’obiettivo esplicito di fissare condizioni “al ribasso”) in circolazione che non potrebbero decadere in senso retroattivo, a meno di non scatenare un contenzioso infinito. Inoltre è bene non dimenticare le conseguenze dello sciagurato referendum – promosso nel 1995 anche da una parte del sindacalismo tradizionale – sull’articolo 19 dello Statuto che ha finito per assegnare una sorta di priorità al contratto applicato nelle aziende (la vera e propria fabbrica dei contratti pirata). Se si vuole estirpare questa malapianta è inutile perdere tempo per selezionare gli agenti contrattuali; è meglio agire direttamente sui contratti. In primo luogo osservando gli effetti di quella codificazione proposta dal CNEL e divenuta legge dello Stato. Poi si potrebbe verificare la possibilità di ripetere un marchingegno giuridico di tanti anni or sono: la legge Vigorelli, dal nome del ministro (Ezio Vigorelli) che la propose e la portò all’approvazione nel 1959 (legge delega n.741). Allora c’era l’assillo della mancata attuazione dell’articolo 39, in conseguenza della quale si riteneva che i lavoratori fossero privi di tutela, essendo il contratto di diritto comune applicabile solo agli iscritti ai sindacati. Si trattava di una legge transitoria, provvisoria ed eccezionale per regolare una situazione passata e tutelare l’interesse pubblico della parità di trattamento tra lavoratori e datori di lavoro. In applicazione della delega il governo emise decreti legislativi che determinavano condizioni minime (salariali e normative) di lavoro sulla base del vincolo delle clausole dei contratti collettivi esistenti. L’efficacia soggettiva (ambito di efficacia) era erga omnes tramite il recepimento in decreti legislativi anche dei contratti collettivi stipulati prima dell’entrata in vigore della legge. L’efficacia oggettiva (tipo di efficacia) prevedeva l’inderogabilità in peius, invalidità/inefficacia della clausola difforme del contratto individuale. Di questi decreti ne furono emanati quasi mille, per i ccnl nazionali ed anche provinciali con rimandi ai nazionali. La Corte Costituzionale non sollevò questioni di legittimità in ragione della eccezionalità e della transitorietà della legge, mentre cassò un provvedimento di proroga perché non poteva essere consentita la continuazione di una procedura diversa da quella stabilita nell’articolo 39. La finalità della legge era quella “di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo nei confronti di tutti gli appartenenti ad una medesima categoria”. Non si potrebbe riandare – mutatis mutandis – a quella esperienza anche adesso per regolare i conti con i contratti pirata? Non sembrerebbe illegittimo sostenere l’esistenza di un interesse pubblico a ristabilire corrette relazioni industriali uniformando la normativa applicata in una medesima unità contrattuale e contrastando il ricorso al dumping sociale in un contesto in cui il numero di contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL) depositati al CNEL ha raggiunto a giugno quota 985, (più di metà dei CCNL copre meno di 1000 lavoratori ciascuno). Erano 549 nel 2012. In sostanza, un certo tipo di flessibilità “negativa” si è trasferita a livello dei contratti nazionali spuri che si autolegittimano grazie alla loro applicazione in azienda. L’articolo 7 poi, pur nei limiti di decadenza della delega, trasformava le norme recepite in una sorta di “zoccolo duro” delle regole da applicare. “I trattamenti economici e normativi minimi, contenuti nelle leggi delegate, si sostituiscono di diritto a quelli in atto, salvo le condizioni, anche di carattere aziendale, più favorevoli ai lavoratori. Essi conservano piena efficacia anche dopo la scadenza o il rinnovo dell’accordo o contratto collettivo cui il Governo si è uniformato sino a quando non intervengano successive modifiche di legge o di accordi e contratti collettivi aventi efficacia verso tutti gli appartenenti alla categoria. Alle norme che stabiliscono il trattamento di cui sopra si può derogare, sia con accordi o contratti collettivi che con contratti individuali, soltanto a favore dei lavoratori”. Per concludere, riassumiamo in estrema sintesi il ragionamento. Anziché risanare la contrattazione collettiva sulla base di una “paternità” ritenuta legittima in nome di una rappresentatività tutta da dimostrare, è sicuramente meglio cacciare dal recinto delle relazioni industriali (in forza di una legge sia pure con efficacia limitata nel tempo) i prodotti inquinati.
Giuliano Cazzola