L’economia mainstream è perplessa: la crescita sta finalmente imponendosi in Europa, le previsioni economiche sono state riviste in rialzo e l’occupazione si sta espandendo. Il solo indicatore che cocciutamente rifiuta di seguire questo andamento è la crescita salariale, sfidando i libri di testo e l’ortodossia economica. Bloomberg l’ha definita “il mistero della perduta crescita dei salari”, il Financial Times scrive sullo “strano boom della crescita in Europa dell’occupazione low-wage” e la Commissione Europea ha fatto la diagnosi di una “ripresa wage-poor”.
Inoltre c’è un crescente consenso tra i policy makers economici che le retribuzioni dovrebbero crescere molto più rapidamente di quanto sta avvenendo. Una improbabile cheerleader per salari più alti in Europa è la BCE, la cui incapacità di fare aumentare l’inflazione l’ha portata a guardare a un aiuto esterno. “La questione di salari più alti è indiscutibile” ha detto con chiarezza Mario Draghi. Analogamente, la Commissione sostiene che “la prospettiva delle retribuzioni si è ora mossa al centro della scena per la sostenibilità della ripresa”, e persino il FMI – puntando il dito contro la Germania – ha scoperto le virtù della crescita salariale.
E’ come se il sindacato europeo avesse trovato alcuni improbabili alleati nella sua campagna, “L’Europa ha bisogno di una crescita salariale”.
A peggiorare la stagnazione dei salari c’è ora il chiaro pericolo che il potere d’acquisto potrebbe ristagnare o anche ridursi, mentre i prezzi alimentari sono tornati a crescere. Questa è una cattiva notizia per il consumo privato, attualmente il motore principale della crescita europea.
Per qualche anno la bassa inflazione aveva assicurato modesti guadagni nel salario reale, malgrado i bassi accordi salariali. Nell’eurozona i salari sono rimasti molto al di sotto di quelli che erano prima della crisi 2008-09. Dunque, cosa spinge i salari in basso? Se si rivolge la domanda a un economista neo-classico, risponderà che i salari seguono i prezzi e la produttività: entrambi sono cresciuti a ritmo anemico.
Ma sono la bassa inflazione e la performance mediocre della produttività le cause della crescita salariale bassa, o ne sono solo un sintomo?
Cominciamo con l’inflazione. Tradizionalmente, i banchieri centrali sono ossessionati dalle spirali salari/prezzi e hanno chiesto moderazione salariale per frenare l’inflazione. Ora stanno scoprendo, a loro detrimento, che le spirali salari/prezzi lavorano anche al rovescio. La magra performance dei salari è, di fatto, vista come una delle ragioni chiave per cui le pressioni interne sui prezzi sono state basse e l’inflazione è stata fortemente deludente negli ultimi anni.
Il caso della produttività è più complesso. Agli economisti piace trattare la crescita della produttività come esogena, determinata da fattori difficili da quantificare, come il cambiamento tecnologico. Pur con tutto il cicaleccio sulla rivoluzione digitale, gli anni ’60 e ’70 sono stati l’apice dell’innovazione rampante, producendo una crescita della produttività a un ritmo dieci volte superiore all’attuale. E’ anche strano che la crescita della produttività si sia invertita repentinamente nel 2008-09, proprio quando ha colpito la crisi finanziaria, e da allora e’ rimasta bloccata. E’ stata per pura casualita’ che il cambiamento tecnologico si sia improvvisamente fermato, all’incirca allo stesso momento in cui l’Europa si è trovata a fronteggiare la più grande caduta della domanda in una generazione?
Alcuni trovano questa storia difficile da credere. Certamente, se le retribuzioni dovessero salire, gli imprenditori dovrebbero pagare nuovi macchinari e trovare il modo per rendere più efficiente l’uso di forza lavoro scarsa? In gergo economico, si chiama sostituzione capitale/lavoro ed è generalmente riconosciuto come forza guida dietro la crescita di produttività di lungo termine. Ma non accade più.
Secondo la BCE, l’intensificazione del capitale è virtualmente assente dal 2013. Ma allora, perché le aziende dovrebbero investire in tecnologie labour saving quando non c’è pressione da costo dal fronte salariale e la domanda aggregata rimane debole? Si accetti tale logica, e la crescita della produttività diventa endogena – qualcosa che è essa stessa guidata da fattori macroeconomici, con le retribuzioni che giocano un ruolo preminente. M
Ma forse stiamo per assistere a un ritorno di una robusta crescita retributiva? Tutti i segni sembrano puntare a quella direzione. “Poiché l’attività economica guadagna slancio e il mercato del lavoro si irrigidisce, le pressioni verso l’alto sulle retribuzioni sono destinate a intensificarsi”, è stata la valutazione della BCE appena un anno fa. Ora il verdetto è che “la crescita salariale dell’eurozona resta basso”. Infatti, la BCE ha una lunga storia di previsioni cui la crescita salariale era dietro l’angolo, solo per rivedere ancora e ancora al ribasso le previsioni. Per i lavoratori europei si trattava sempre di marmellata domani, non di marmellata oggi.
C’e’ da chiedersi perché i modelli economici standard continuano a prevedere crescite salariali che faticano poi a materializzarsi. Una possibilità è che siano stati alimentati da dati del mercato del lavoro sbagliati o fuorvianti. Ci sono buone ragioni per credere che i tassi di disoccupazione sottostimino il reale andamento nel mercato del lavoro, dato che tutti quelli che lavorano per almeno un’ora a settimana vengono contati tra gli occupati. Con il diffondersi dei contratti precari e spesso il part-time involontario, ci sono ora milioni di lavoratori in Europa che vorrebbero un lavoro regolare.
La possibilità più preoccupante è che i modelli siano stati qualificati per prevedere i comportamenti dei salari in un mondo che non esiste più. In nome della flessibilità e della competitività – e spesso in base ai dettami della Commissione Ue, della BCE e del FMI – le riforme post-crisi del mercato del lavoro hanno preso di mira la contrattazione salariale centralizzata e una miriade di altre protezioni. Tenendo conto che le istituzioni che determinano i salari sono state enormemente indebolite, l’incapacità dei salari a crescere non deve considerarsi sorprendente. Quasi tutti sembrano ora convenire che le retribuzioni devono crescere se l’ Europa vuole sfuggire al ciclo di domanda debole, bassa inflazione, intensificazione di capitale stagnante e bassa crescita della produttività; ma la crescita salariale non si verificherà per un colpo di bacchetta magica dei banchieri centrali. Piuttosto, l’Europa deve ricostruire le istituzioni per la formazione dei salari, soprattutto sostenendo attivamente la contrattazione collettiva, fornendo meccanismi di estensione che aumentano la copertura dei contratti collettivi e sviluppando una politica europea di minimum wage che garantisca un dignitoso salario a tutti.
Thorsen Schulten e Malte Lubker, senior reserchers della Hans Bockler Foundation di Dusseldorf
(articolo pubblicato sul Social Europe Journal del 9 agosto)