“La Repubblica, una e indivisibile”. Lo dice la Costituzione all’articolo 5, non una velleità romantica. Eppure trasgredire alle regole dei padri e delle madri – costituenti, mica poco – è un fatto che di questi tempi pare andare tanto di moda. Con la legge sull’autonomia differenziata e il disegno di legge sul presidenzialismo o premierato (ma non eravamo contrari all’anglicizzazione o a all’adattamento all’italiano?), il governo Meloni sta dando prova di spiccata fantasia e versatilità nel voler stravolgere l’ordinamento su cui si fonda il nostro fragile Paese, minando l’ultimo baluardo di protezione della democrazia dalle ingerenze di un mondo che pare stia correndo propositivamente per andarsi a schiantare. Soffermandoci sulla prima misura, – nella sostanza riforma del Titolo V della Costituzione messa in campo nel 2001 da un governo di centro sinistra per contenere le velleità dissociative della “Lega Nord per l’indipendenza della Padania” -, l’autonomia differenziata è il disegno lucido non solo di creare ventuno cesure territoriali, ma di stravolgere l’intero impianto della Repubblica parlamentare. Lo sintetizza con precisione Pierluigi Bersani: «Si marginalizzerebbe la funzione del Parlamento e delle istituzioni di garanzia, in primis quella del presidente della Repubblica. A cascata, verrebbe compromessa la praticabilità degli obiettivi programmatici essenziali: la liberazione effettiva della persona dagli ostacoli che ne compromettono la realizzazione piena; la dignità del lavoro; la giustizia sociale. Insomma, la posta in gioco è altissima». Queste parole sono contenute nella prefazione del libro Perché l’autonomia differenziata fa male anche al Nord (Castelvecchi, 154 pagine, 17,00 euro) di Stefano Fassina, che sviluppa a riguardo una solida argomentazione, pur secondo un “principio di precauzione” e quindi non tratteggiando uno scenario deterministico, in cui si decostruisce passo per passo l’illusione di una misura che, secondo i fautori, gioverebbe al Paese intero. Apparentemente non una novità, il lavoro di Fassina – non una voce qualsiasi – si distingue per il punto di vista inedito da cui muove la sua trattazione: «L’AD (autonomia differenziata, ndr) non è “questione meridionale”. È questione nazionale. Dovrebbe allertare non soltanto da Roma (inclusa) in giù, ma allarmare anche, anzi innanzitutto, i “più forti”, le classi dirigenti dell’impresa, della finanza, del lavoro, dell’alta amministrazione, della cultura insediate al Nord. Per una ragione semplice: attraverso l’AD, in una fase di ritorno del primato delle politiche pubbliche sul “fai da te” nel mercato, l’Italia tutta, in ogni sua parte, scade irreversibilmente a “oggetto della Storia”». Se il presupposto corrente è che l’autonomia differenziata sia, da una parte, per gli aprifila Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, un “gioco a somma positiva” – per cui anche il Sud può diventare Nord, teoria spostata anche dai riformisti meridionali incuranti del dislivello del playing field –, mentre, dall’altra, per la fazione critica si tratterebbe di un “gioco a somma zero” – «dando per scontato il “più” per il Centro-Nord, dalla Toscana in su, e il “meno” per il Centro-Sud, per conseguenza algebrica imposta dall’invarianza complessiva dei saldi del Bilancio dello Stato scolpita nelle norme, oltre che dato di realtà» -, Fassina va oltre con un’operazione «poco o affatto tentata»: provare «innanzitutto a capire le ragioni del Nord e motivare perché l’AD aggrava anche i suoi specifici problemi». Ai due giochi positivi e a somma zero, infatti, propone la visione di un gioco “a somma negativa”, per cui al “meno” del Centro-Sud si affiancherebbe un “meno” per il Centro-Nord.
La pulsione separatista di alcune regioni del Nord è alimentata da fattori sinceri, che l’autore spiega con senso della realtà – fuori dall’eticizzazione dei conflitti – nel secondo capitolo del libro. Si tratta del sostanziale impoverimento del “cittadino medio” lombardo, veneto ed emiliano-romagnolo alimentato da una congerie di fattori: le restrittive politiche di bilancio, l’assenza di strategie e politiche industriali, carenze della classe imprenditoriale e la resistenza di tante aziende ad investire sull’innalzamento della specializzazione produttiva, ma anche la pressione competitiva dei mercati. «Da qui origina l’interpretazione competitiva del regionalismo, esplicitata nei documenti ufficiali di avvio delle richieste di autonomia. Cionondimeno, la “fuga” dal resto d’Italia è una scorciatoia illusoria. Anzi, la strada del “fai da te” regionale porta a peggiorare le condizioni di competitività delle imprese coinvolte». Basta guardare i dati per avere contezza dell’impoverimento dei “ricchi”: l’Italia è sì in sostanziale arretramento, ma le regioni del Nord, le più economicamente vivaci e quindi più suscettibili della variazione dei mercati e delle normative, perdono più posizioni (per Pil pro-capite) nella classifica delle regioni europee: tra il 2006 e il 2021, il Piemonte perde 47 posizioni, il Veneto 36, facendo peggio delle regioni meridionali (Basilicata -12, Sardegna -22, Puglia -25, Abruzzo -27, Calabria -32, Sicilia -35, Campania -36). Il declassamento, inoltre, è maggiore anche rispetto alle regioni della Vecchia Europa e ancora più marcato con quelle dell’Europa dell’Est.
Con questi presupposti, perché l’abdicazione delle competenze centrali alle regioni – fino a 23 materie, che includono oltre 500 funzioni – potrebbe essere dannosa anche per il ricco Nord? Innanzitutto perché complicherebbe, sull’asse verticale, le relazioni tra Stato e Regioni ma, soprattutto, tra lo Stato e gli altri Stati dentro e fuori l’Unione europea. A differenza di altre forme di federalismo, per cui si verificherebbe un unicum, l’Italia non ha una “Camera Alta” composta dalle rappresentanze regionali e, in assenza di meccanismi costituzionali sostitutivi, il sistema istituzionale è fossilizzato sull’intesa decennale tra Stato e Regione che può essere modificata solo con il consenso del singolo presidente in specifici trattati bilaterali. «Le conseguenze negative della caduta di potere negoziale del governo nazionale si ripercuoterebbero anche sulle aziende, le lavoratrici e i lavoratori delle Regioni beneficiate dalle compartecipazioni al gettito dei tributi erariali. Gli interessi delle nostre Regioni, grandi e piccole, perderebbero tutela a vantaggio dei loro competitor oltreconfine». Questo concretizza la caduta dell’illusione sull’Europa delle Regioni sorta negli anni Ottanta ed arrivata fino agli anni Duemila.
Con l’AD, poi, quindi con la cessione alle Regioni dell’esclusività della potestà legislativa su un largo spettro di materie e funzioni, si verifica un fenomeno di dumping regolativo tra territori che apparentemente potrebbe essere un vantaggio per le Regioni del Nord ma che nei fatti apre una corsa al ribasso tra i territori. Così come accade nel mercato unico europeo, «dove l’assenza del level playing field promuove il dumping fiscale, sociale a salariale. Soprattutto in reazione alla concorrenza sleale alimentata da quest’ultimo, potrebbe accentuarsi la corsa al ribasso sil cuneo fiscale (ad esempio attraverso la riduzione delle addizionali regionali e locali all’IRPEF), sulla regolazione del lavoro e della sua sicurezza, sugli standard ambientali e alimentari». Ma in definitiva a pagare lo scotto saranno soprattutto le lavoratrici e i lavoratori delle imprese del Nord. «In un contesto di competizionale regionale senza standard nazionali o con standard nazionali generici o specifici ma minimali, quindi minori dei livelli oggi garantiti nelle Regioni settentrionali […] quanto potrebbe reggere il contratto collettivo nazionale di lavoro nella sua funzione sostanziale di limitare la concorrenza al ribasso nelle condizioni di lavoro, già in buona parte compromessa? […] In un quadro dove per la stragrande maggioranza dei comparti del lavoro pubblico […], il reclutamento, la gestione e le retribuzioni del personale diventano competenza esclusiva delle Regioni, […] sarà pressoché impossibile per le organizzazioni sindacali del settore privato “resistere” alla differenziazione» alimentando, di conseguenza, il fenomeno dei contratti pirata che premia le aziende imprigionate nella competizione di costo e penalizzando le aziende che investono in qualità di prodotti e servizi. Una preoccupazione condivisa anche dalle associazioni di rappresentanza delle imprese, come Confindustria che sostiene sia «cruciale lasciare alla gestione nazionale alcune competenze strategiche per la tutela del mercato, vale a dire quelle materie essenziali per assicurare le condizioni di base per la competitività e lo sviluppo». Si assisterebbe, quindi, a un’impennata di precarietà normativa con la quale dovranno confrontarsi sul medio-lungo termine le imprese delle Regioni differenziate.
Questa frammentazione produce a cascata anche un’ulteriore complicazione dell’apparato burocratico e degli oneri connessi, già ampiamente compromesso e inefficiente in tutti i settori, che nelle Regioni differenziate peserà ulteriormente. Ambiente, infrastrutture, sanità, istruzione, lavoro: il quadro andrà a frastagliarsi causando maggiore disomogeneità e variabilità nella regolazione delle competenze, della vita delle lavoratrici e dei lavoratori e degli stessi imprenditori, nonché così raddoppiati in termini gestionali e aumento dei contenziosi tra Stato e Regioni e tra le Regioni stesse. Attraverso gli esempi documentati, sostanzialmente le proposte delle tre Regioni aprifila e le loro rispettive Intese, Fassina dimostra che «non è difficile immaginare le difficoltà per mettere d’accordo, dopo aver marginalizzato lo Stato, i presidenti di regione e l’impennata dei tempi, già biblici», per la realizzazione e gestione di opere e normative. Confindustria, CNA, Confartigianato, Banca d’Italia, ANCI, non hanno fatto mancare di rilevare i problemi che sorgeranno con l’AD. A titolo di esempio, tra gli altri, Confindustria raccomanda di «evitare un’eccessiva frammentazione, con il moltiplicarsi di normative e prassi divergenti sui territori, su temi strategici per lo sviluppo, come l’ambiente. Sarebbe evidentemente incompatibile con gli obiettivi di semplificazione amministrativa e di accelerazione dei processi di trasformazione industriale» e a pagare, ancora una volta, saranno le imprese più forti del Nord.
Ultima tra le criticità rilevate dall’autore riguarda i costi diretti e indiretti per imprese e famiglie. In particolare, gli impatti indiretti, quelli finanziari ed economici, non hanno goduto di particolare attenzione dagli economisti eppure risultano di rilevanza particolare: «I costi del debito pubblico e privato, ossia per imprese, famiglie, banche e assicurazioni, e i contraccolpi sull’economia reale». Il nostro già ingente indebitamento, sostenuto dalle entrate erariali che con l’AD verranno spartite con le Regioni, ci farà perdere di credibilità tra i mercati internazionali ed è plausibile, di conseguenza, un declassamento dei titoli di stato, il taglio alla spesa sociale e l’aumento dei tassi di interesse che peserà (come abbiamo già visto) sul risparmio di imprese e famiglie.
In conclusione, nella nota con delle proposte una “agenda possibile”, Stefano Fassina ribadisce che sì «le ragioni del Nord vanno riconosciute», ma che comunque «la rotta dell’AD porta al naufragio tutti, anche le Regioni “più forti”. Per scongiurarlo, i richiami giustissimi alla solidarietà costituzionale e ai sentimenti patriottici, pur necessari, non sono sufficienti. La bussola riformista deve orientarci verso l’allentamento del “vincolo interno” e del “vincolo esterno”». La proposta di interesse riguarda, però, “l’effetto consapevolezza”: l’importanza di conoscere più a fondo e con dovere di completezza questa legge che investirà tutte le italiane e tutti gli italiani in ogni ambito delle loro vite, soprattutto per smontare le pregiudiziali eticizzate che distraggono il discorso e sviano la comprensione profonda di questa legge. Riprendendo i dati proposti da Ilvo Diamanti nell’articolo Un Paese diviso dalle riforme pubblicato su la repubblica il 13 maggio 2024, si rileva un calo del consenso nei confronti dell’AD. Nel dettaglio: nel Nord-Ovest i favorevoli calano dal 58% al 50%; si restringe la minoranza al centro-Nord (dal 41% al 33%); crollano al Centro-Sud (dal 52% al 29%) e al Sud e Isole (dal 58% al 42%), mentre si conferma in larga maggioranza soltanto nel Nord-Est. Complessivamente, da settembre 2023 a maggio 2024, i favorevoli scendono dal 51% al 45%. «Insomma, quando si entra un po’ nel merito, si riconosce che la partita non è di innovazione amministrativa e non è giocata soltanto sul campo della redistribuzione di risorse di finanza pubblica. Diventa evidente l’operazione tentata e i pericoli anche per i territori “ricchi”. Il fai da te regionale penalizza anche chi acquisisce maggiori risorse pubbliche. In sintesi, incomincia a emergere un punto di realtà: l’AD fa male anche al Nord».
Elettra Raffaela Melucci
Titolo: Perché l’autonomia differenziata fa male anche al Nord
Autore: Stefano Fassina
Editore: Castelvecchi – Collana Nodi
Anno di pubblicazione: 2024
Pagine: 154 pp.
ISBN: 978-88-3290-228-0
Prezzo: 17,00€