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Home - Approfondimenti - Analisi - Perché la legge finanziaria non aiuterà la ripresa dell’occupazione

Perché la legge finanziaria non aiuterà la ripresa dell’occupazione

di Alessandra Servidori
21 Ottobre 2019
in Analisi

Le indiscrezioni sulla legge finanziaria 2020 inviata a Bruxelles, e le relative richieste di chiarimento sui numeri e provvedimenti della Ue,  ci inducono a riflessioni molto concrete legate al tema dell’occupazione, anche avvalendoci di dati Istat, INPS, Itinerari previdenziali, Centro Studi Confindustria, Confartigianato, ecc.

Partiamo dalle indiscrezioni: sul taglio delle tasse sul lavoro il Governo aveva  dichiarato che il 2020 sarà l’anno dei lavoratori. Poco o nulla, invece, per i datori di lavoro. Le uniche notizie sono quelle relative all’insieme dei bonus del Piano industria 4.0: saranno prorogati il super e l’iper ammortamento, così come il bonus formazione, anche per il 2020. Per il resto, si sperava che la Legge di Bilancio 2020 ponesse almeno le fondamenta per un piano complessivo di riforma fiscale, che puntasse non solo alla riduzione delle tasse in busta paga, ma anche (e soprattutto) alla riduzione del sempre più elevato costo del lavoro. Ma le risorse sono veramente pochissime e i beneficiari del cd intervento sul cuneo fiscale anche.

Rimaniamo ai fatti certi. Il tasso d’occupazione italiano è molto inferiore a quello europeo, a causa sostanzialmente dell’occupazione femminile e giovanile, mentre per l’occupazione delle fasce più anziane è centrata la media europea. In particolare, la partecipazione delle donne alle forze di lavoro – vale a dire la somma di chi è occupato e di chi cerca lavoro – è del 48,1% in Italia, contro il 59% della media UE. Il delta occupazionale tra Italia ed Europa in termini di professioni è evidente: nei servizi alle famiglie, nell’industria e in agricoltura e pesca il tasso di occupazione italiano è addirittura più elevato di quello dell’UE a 15 Paesi. Negli ultimi due comparti ciò non sorprende, avendo l’Italia una tradizionale specializzazione produttiva in manifattura e, in misura minore, anche in agricoltura e pesca. La maggiore occupazione nei servizi alle famiglie dipende invece dalla specificità del welfare italiano, che lascia parecchio spazio all’intervento dei familiari nella presa in carico di soggetti anziani, malati o non autosufficienti. I cd caregiver sono rimasti senza riconoscimento e risorse.

La carenza occupazionale invece rispetto al “modello” UE a 15 Paesi si concentra proprio nei settori della sanità e assistenza sociale (circa 1,4 milioni di occupati in meno) e in misura minore nell’istruzione, nella pubblica amministrazione e nelle attività immobiliari, professionali e noleggio. Mancano cioè in Italia, nonostante le lunghe discussioni sul pubblico impiego, medici, infermieri, assistenti sociali, insegnanti. L’occupazione in Italia rispetto all’Unione Europea, e in particolare rispetto alle economie più forti, è maschile, anziana e poco qualificata. Guardando i dati del 2018 e quelli del 1° semestre 2019, innanzitutto i dati congiunturali sull’occupazione (destagionalizzati, ossia depurati delle fluttuazioni attribuibili alla componente stagionale),  il numero degli occupati è sceso dello 0,2% e quello dei disoccupati è aumentato del 3,3%. Quest’ultimo valore risente della diminuzione del numero degli inattivi: c’è più gente che cerca lavoro e aumenta ovviamente anche il numero di chi non lo trova. E il saldo assunzioni/cessazioni è negativo.

I dati dell’Osservatorio INPS  2019 (che prendono in considerazione i flussi e non di stock) confermano insieme ai dati di stock Istat  che i nuovi contratti a tempo indeterminato sono trasformazioni di tempi determinati. In termini assoluti  gli occupati calano: da un lato, un aumento sensibile degli autonomi ( sarebbe interessante capire quanti dipendenti son passati alla Partita IVA per beneficiare, unitamente all’azienda, della tassazione più vantaggiosa) pari a 30.000 unità e, dall’altro, un forte calo tra i dipendenti, e il calo è dovuto principalmente alla diminuzione dei contratti stabili. E dunque se aumento vi è stato -come continua a dire il governo-  era da imputare essenzialmente alla trasformazione di contratti a tempo determinato, realizzati come consuetudine in gennaio dalle aziende per ragioni principalmente amministrative (utilizzo degli incentivi, ecc.). Svuotato il serbatoio delle trasformazioni sarebbe finito ed esaurito “l’effetto doping”: cadono i contratti a tempo indeterminato (quelli in essere, non le nuove assunzioni,  ragione per quale si indovina un saldo assunzioni/cessazioni molto negativo) e pure quelli a termine.

Il Decreto Dignità si dimostra dunque ancora una volta del tutto ininfluente rispetto alle dinamiche occupazionali. In buona sostanza, le statistiche lette tendenzialmente e storicamente  confermano una dinamica di sostenuta crescita occupazionale fino a maggio 2018 e, a seguire, una sensibile contrazione. Le incentivazioni fiscali e contributive hanno permesso di spostare quote anche significative di occupati a termine verso l’occupazione stabile (come già nel 2015-2016 con il Jobs Act fino al primo semestre 2019) e poi l’occupazione nel suo complesso tende a diminuire in relazione alla congiuntura economica. In assenza di significative inversioni di tendenza inevitabile che, esaurita la spinta alla stabilizzazione dei contratti a termine, le imprese  sono e saranno molto caute sulle assunzioni e, viste le difficoltà ad assumere a termine, preferiscono  guadagnare elasticità usando alternativamente i pedali dello straordinario e della cassa integrazione. I dati sulla CIG confermano questa situazione, aumentano  le domande di CIG Ordinaria e soprattutto del 180% quelle di CIG Straordinaria.

Al netto di variazioni congiunturali, sul 2019 non si può allora che prevedere un calo dell’occupazione complessiva a causa di una progressiva stabilizzazione dell’occupazione stabile e del calo di quella a termine. In particolare, è prevedibile una diminuzione delle ore lavorate a fronte di un corrispondente aumento della Cassa Integrazione. A ciò si aggiungerà inevitabilmente l’impatto del pensionamento anticipato provocato da “Quota 100” e dagli altri strumenti esistenti. Del resto, gli  studi di Confindustria su PIL 2019 (uguale a zero) confermano che ben difficilmente per quel po’ che ci rimane dell’anno in corso potranno esserci novità in grado di determinare un’inversione di tendenza nel mercato del lavoro. E la Legge finanziaria o cd di bilancio non aiuta.

Alessandra Servidori

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