Stupore. Sconcerto. Incredulità. Eppure è vero. Mercoledì 20 novembre, la General Motors, rappresentata dal capo del suo ufficio legale, Craig Glidden, ha effettivamente fatto causa alla Fiat Chrysler accusandola di aver corrotto il forte sindacato nordamericano dell’auto, la United Automobile Workers. Secondo GM, la FCA avrebbe condotto tale azione corruttrice in relazione alle trattative contrattuali risalenti agli anni 2009, 2011 e 2015 e con un duplice scopo. Primo, ottenere condizioni contrattuali più favorevoli di quelle relative alle altre case costruttrici di Detroit – in pratica, la possibilità di pagare salari orari mediamente più bassi – e, quindi, uno sleale vantaggio competitivo nei loro confronti. Secondo, sfruttare questo vantaggio competitivo per ottenere una posizione di forza da cui premere sul vertice di GM per ottenere, nel 2015, l’auspicata fusione fra le due case automobilistiche. Fusione, peraltro, poi non realizzata a causa del secco rifiuto opposto dalla Ceo di General Motors, l’irremovibile Mary Barra.
Che dire di questa duplice accusa? Sarà vera? Sarà falsa? A meno di 48 ore dall’avvenuta denuncia, per noi che viviamo al di qua dell’Atlantico, è praticamente impossibile rispondere a questa domanda.
Anche se, va detto, la prima cosa che viene in mente è che appare poco credibile l’ipotesi che la più grande casa automobilistica degli Stati Uniti si sia lanciata in un’offensiva legale di questo tipo senza essere abbastanza sicura di poter portare avanti tale offensiva non solo sulle pagine dei giornali o sugli schermi televisivi, ma anche – o anzi, principalmente – in una severa aula di Tribunale.
Mentre la seconda cosa che viene in mente è una notizia che, in Italia, è conosciuta, praticamente, solo dagli addetti ai lavori, mentre, negli Stati Uniti, è ampiamente nota all’opinione pubblica. Ovvero il fatto – opportunamente ricordato ieri da Marco Valsania sul Sole 24 Ore – che un’inchiesta federale anti-corruzione, “venuta alla luce nel 2017”, ha effettivamente lambito i vertici della UAW, coinvolgendo alcuni suoi funzionari e inguaiando il suo segretario generale, Gary Jones, che si è visto costretto a uscire di scena.
Peggio. Il fatto che – come scrive ancora Valsania – tre dirigenti della FCA, tra cui Al Iacobelli che era responsabile per le relazioni industriali, “si sono riconosciuti colpevoli”. E tutto ciò nell’ambito di un’inchiesta che ancora “non è finita”.
A questo punto sorge però una domanda. Visto che esiste già un’inchiesta penale federale su reati di corruzione che ha preso di mira non solo alcuni dirigenti della UAW, ma anche alcuni manager della FCA, perché lanciare adesso una causa civile contro la stessa FCA? E perché chi ha sentito il bisogno di farlo è proprio la GM?
Anche qui non possiamo dare risposte esaustive. Qualche considerazione può essere però formulata.
La prima considerazione è relativa allo scopo di questa iniziativa legale di GM. Che non sembra volta, almeno principalmente e comunque unicamente, a ottenere da FCA un risarcimento per i danni subìti sul piano competitivo, quanto a colpire l’immagine e, si starebbe per dire, la reputazione della stessa FCA. Il che non è poco, visto che le aziende quotate hanno nella reputazione la prima dote che consente loro di solcare con relativa tranquillità i mari procellosi della Borsa.
Qui va sottolineato, infatti, che in un comunicato dal linguaggio un po’ sovranista, che alle nostre orecchie ricorda subito gli accenti usati da alcuni nostri governanti per apostrofare ArcelorMittal, General Motors attacca direttamente l’eroe del mito di fondazione di FCA: Sergio Marchionne.
Leggiamo qualche passo dalla denuncia di Glidden, come riportata da Paolo Griseri sulla Repubblica di giovedì 21: “Quando una società straniera arriva negli Stati Uniti e ottiene il controllo di un costruttore simbolo, accetta di sottoporsi alle leggi degli Stati Uniti”. Invece, “Fca era nella posizione di ottenere vantaggi attraverso particolari relazioni con i rappresentanti sindacali che si era procurata con frodi e tangenti”. Ebbene, “noi crediamo (…) che Sergio Marchionne fosse a conoscenza di questo fatto e che anzi lo abbia incoraggiato e ci abbia partecipato”.
Ora sorvoliamo sul fatto che non è elegante accusare di una grave scorrettezza professionale, per non dire di un reato penale, il capo di un’azienda concorrente sottolineando che era uno straniero. Sorvoliamo anche sul fatto, direi più grave, che quest’uomo è morto e non potrà quindi difendersi da nessuna accusa. Nel celebre film Rashomon, uno dei capolavori di Akira Kurosawa, un giudice ricorreva a uno sciamano per convocare l’anima di un defunto affinché quest’ultimo, con la sua testimonianza, risolvesse un intricato caso giudiziario. Ma è difficile che ciò che appariva possibile nelle antiche leggende giapponesi sia realizzabile nell’inpoetica America di Donald Trump.
Sorge però allora un’altra domanda: perché prendersela adesso proprio con Marchionne?
Le risposte possibili sono tre.
Prima risposta. In termini processuali, coinvolgere Marchionne nei casi di corruzione di cui si sarebbero resi responsabili alcuni manager di FCA significa che l’azienda concorrente è colpevole in quanto tale. Laddove, sino ad oggi, FCA ha sostenuto di non aver nulla a che fare con le eventuali colpe di alcuni suoi dirigenti. In sostanza, quindi, accusare Marchionne, anche se è ormai defunto, significa dare una base processuale alle richieste di indennizzo che GM non ha ancora quantificato, ma si dice intenzionata ad avanzare.Infatti, non può fare di un defunto un imputato in un processo penale. Ma un’impresa può forse intentare un causa civile contro un’altre impresa che la abbia danneggiata con dei comportamenti cosapevolmente dolosi avviati quando il defunto ne era a capo.
Seconda risposta. Accusare Marchionne significa, come si è già visto, tentare di incrinare l’immagine stessa di un’azienda concorrente in un momento in cui, da un lato, questa immagine, affidata com’è a Mike Manley, non è fortissima, mentre, dall’altro, è particolarmente importante per un’azienda che, come l’italo-americana FCA, è impegnata, con tutta sé stessa, a costruire una complessa fusione con la francese PSA.
Terza risposta. Nell’America di Trump, accusare lo straniero Marchionne significa, come si dice a Roma, buttarla in caciara in chiave sovranista.
Nel recente, durissimo scontro che ha opposto per 40 giorni, dal 16 settembre al 25 ottobre, la UAW alla General Motors, uno dei temi di fondo del conflitto era la volontà dell’azienda, espressa già nel novembre del 2018, di tagliare qualcosa come 14mila posti di lavoro, chiudendo del tutto alcuni stabilimenti. Il sindacato, ma anche parte del mondo politico, aveva quindi accusato l’azienda di essere disposta a ridurre i posti di lavoro negli Stati Uniti pur di non rinunciare ai posti di lavoro a basso costo creati all’estero, a partire dal Messico.
Sia detto per inciso, col recente accordo l’azienda si è vista costretta ad accogliere varie richieste sindacali in materia di salari e diritti dei lavoratori, però non ha mollato nulla di sostanziale circa i suoi programmi industriali, chiusure comprese. Ed ecco che adesso, ovvero un mese dopo la fine di quello sciopero a oltranza che è costato carissimo alla General Motors, l’azienda stessa si toglie la soddisfazione di dare un doppio schiaffo alla UAW.
Da un lato, compiendo un atto giudiziario che è anche un atto di comunicazione con cui ricorda a tutti i problemi di corruzione di cui avrebbe sofferto parte del gruppo dirigente sindacale. Dall’altro, annunciando che userà i proventi della causa intentata alla FCA, ovvero quanto otterrà dalla richiesta di risarcimento – peraltro, ripetiamolo, non ancora quantificata – per creare posti di lavoro negli Stati Uniti.
Ora va detto che già durante la recente vertenza contrattuale, GM aveva tentato la via di rivolgersi direttamente ai suoi dipendenti, scavalcando il sindacato accusato, in sostanza, di tirare troppo la corda. Un tentativo peraltro infruttuoso, questo, che aveva avuto il solo effetto di irritare la dirigenza sindacale, senza fare breccia fra i lavoratori.
La sensazione è che adesso GM abbia deciso di fare un tentativo analogo, rivolgendosi non più direttamente, ma indirettamente, ai propri dipendenti per dire loro, in sostanza, che chi agisce concretamente per creare posti di lavoro negli Stati Uniti è l’azienda, e non quella dirigenza sindacale, forse corrotta, che li ha spinti a scioperare per 40 giorni quasi inutilmente.
Anche se, in termini giudiziari, la General Motors ha quindi fatto causa solo a FCA, evitando di chiamare in giudizio anche la UAW (cosa, forse, legalmente più ardua), si può dire con sicurezza che la sua offensiva comunicativa, e quindi politica, è invece duplice, essendo volta a incrinare, con un sol colpo, sia l’immagine di un’azienda concorrente che quella del sindacato di settore. Di più: essendo volta a incrinare tale immagine sia di fronte alla generalità dell’opinione pubblica, che di fronte a suoi segmenti specifici: dai quello dei propri dipendenti sindacalizzati a quello degli operatori di Borsa.
Se gli scopi della svolta giudiziaria di General Motors sono dunque abbastanza chiari, c’è invece qualcosa che va ancora chiarito nella sua versione dei fatti. Ce ne occuperemo nella prossima puntata. (1, continua)
@Fernando_Liuzzi