Vari repertori internazionali, tra cui quelli dell’Ilo (l’Organizzazione internazionale del Lavoro) invitano a rafforzare il ‘dialogo sociale’ per fronteggiare i nuovi rischi per i lavoratori e le emergenze economiche e occupazionali indotte dalla Pandemia. Si tratta di un auspicio sicuramente importante, perché ricorda quanto sia centrale la cooperazione di tutti i principali attori ed interessi nel corso delle fasi più critiche che attraversano le comunità nazionali. Non è però chiaro al momento se questo orientamento venga concretamente raccolto nelle diverse realtà nazionali cui è indirizzato, nonostante la sua indubbia valenza, dando vita ad una nuova stagione di patti social o equivalenti. Se prassi di questo genere stanno davvero maturando nei paesi europei lo potremo vedere con precisione tra qualche tempo, quando alla fase dell’emergenza farà seguito quella – si spera – del ‘ricovery’, della ripresa e del rilancio. Per quanto la spinta dell’Ilo e di altri Osservatori internazionali sia dotata di prestigio e di autorevolezza valoriale, un esito positivo – il rafforzamento del dialogo e di intese tripartite – non appare per nulla scontato. Non vale neppure invocare i precedenti storici, che inducono generalmente a pensare che quando si tratta di rimettere in moto l’economia e di ricostruire il ricorso ai patti sarebbe la scelta più naturale, almeno sotto il profilo della coesione sociale. Così non è stato in effetti dopo la ‘grande recessione’ del 2008, che invece – come attestano diversi studi – ha visto nella maggioranza dei casi prevalere comportamenti e decisioni unilaterali da parte dei governi, con un limitato coinvolgimento degli attori sociali ed in particolare dei sindacati.
Giustamente da queste colonne nelle scorse settimane Gaetano Sateriale ha ribadito più volte e con dovizia di argomenti come l’Italia si avvantaggerebbe nei prossimi mesi, tanto sul piano della ripresa economica che sul versante dei benefici sociali, se si desse vita ad un grande patto: in grado di rilanciare in positivo, e proponendo il ridisegno dello sviluppo , la concertazione tripartita adottata negli anni novanta del novecento, in particolare grazie al Grande Accordo del 1993.
Mentre personalmente condivido questa impostazione, vorrei dedicare qualche riflessione a cercare di capire perché questa evoluzione, auspicata da tanti anche tra i soggetti protagonisti, non si stia invece materializzando.
La chiave di volta per trovare una spiegazione plausibile si trova – a mio avviso – nelle scelte operate dall’attore governo. In passato l’importanza del ruolo del governo era stata spesso sottovalutata nelle analisi comparate, che dedicavano la loro attenzione ad altri aspetti, come la forza dei sindacati e il ‘monopolio’ della rappresentanza da parte delle grandi organizzazione sociali. Mentre tale importanza si mostrava già piuttosto evidente nella vicenda italiana, tanto in relazione agli ostacoli che avevano condotto ai problemi del 1984 (accordo non raggiunto dal governo Craxi), che alla capacità di usare al meglio le risorse a disposizione dell’attore pubblico come si era invece visto nel 1993 (accordo fortemente voluto e indirizzato dal governo Ciampi). Oggi anche negli studi internazionali questa variabile – il ruolo agito dai governi – viene considerata come la più importante in questo gioco, dal momento che le leve principali per promuovere, o meno, un patto sociale sono in larga parte concentrate nelle mani dei soggetti pubblici.
Proprio questa variabile appare, allo stato attuale, condizionante in negativo nel caso italiano: nel senso tanto della volontà politica che di un più generale orientamento strategico e culturale.
Il quadro italiano, tutt’altro che chiaro e lineare, potrebbe essere riassunto dalla seguente formula: il governo (non solo quello ora in carica) è troppo debole per poter fare a meno del sostegno delle parti sociali, nello stesso tempo queste ultime non sono abbastanza forti e coese da imporre la prospettiva di un rinnovato patto concertativo.
Quindi una situazione ambigua che dà vita ad una sorta di terra di mezzo: un guado nel quale tutti gli attori sono variamente impantanati.
Qualche rapida parola sulle due parti sociali. Esse, pur complessivamente solide sul piano organizzativo, hanno perso negli ultimi dieci anni terreno ed influenza nella sfera politica. A ciò si aggiungono le loro divisioni. Alla ritrovata unità tra le tre Confederazioni (un bene importante), corrisponde nell’ultimo periodo il ritorno della belligeranza interconfederale voluto principalmente da Confindustria (e forse destinato augurabilmente a diluirsi): cosa che però ne diminuisce la capacità di pressione comune.
Ma il punto chiave , se si vuole capire l’impasse, resta quello dell’orientamento e dell’azione dei governi. Dopo un decennio in cui ha prevalso un approccio di semi-esclusione, o di messa in scena del teatrino politico della disintermediazione, il governo attualmente in carica non ha segnato una linea di visibile discontinuità rispetto a questo trend. Nello stesso tempo in una realtà come la nostra, in cui gli attori sociali, ed in particolare i sindacati, restano molto strutturati e radicati, appare impraticabile una linea effettivamente ‘anti-union’, di contrapposizione pura. Ma resta allo stesso tempo difficile, se non improbabile, lo slittamento verso un approccio esplicitamente pro-union. Ed in effetti tende a prevalere in modo spugnoso quello che potremmo indicare come un orientamento ‘a-union’. Un orientamento intermedio che, con un po’ di cinismo, potremmo tradurre nella seguente modalità (da parte dei governi): farne a meno (di sindacati e associazioni datoriali) se possibile, utilizzarli quando serve.
A ben vedere questa trama è quella che è andata in scena anche negli ultimi mesi, a partire dal decollo del Covid. Al clima da unità nazionale, corroborato da vari accordi sulla salute e sicurezza, ha fatto nella sostanza da pendant un evidente freno verso intese di portata più ampia sul piano degli oggetti, oltre che su quello simbolico. Prevalgono convergenze occasionali e settoriali, accompagnate da schermaglie e conflitti che non diventano mai di largo raggio ( forse con l’eccezione di qualche recente fiammata relativa al pubblico impiego).
Ma se il Presidente del Consiglio ha escluso in modo esplicito – ma non argomentato – il ritorno della concertazione, una qualche ragione più profonda, non solo tattica, pure ci sarà.
Ed infatti accanto ai calcoli spiccioli sui vantaggi e i costi, che evocano qualche affinità con il cinismo sopra evocato, dobbiamo annoverare in special modo la persistenza (o, come adesso si preferisce dire adesso, la resilienza) di alcuni atteggiamenti di fondo nelle culture politiche in campo.
Sicuramente permane l’ostilità manifesta dei pentastellati, privi di altre forti bussole, verso l’intermediazione e dunque verso il ruolo degli interessi organizzati dentro il processo di decisioni pubbliche. Una ostilità meno netta che in passato, ma che rasenta l’autolesionismo, almeno nei casi nei quali una qualche disponibilità al confronto potrebbe aiutare a ridurre danni inutili o conflitti inessenziali. Peraltro una ostilità sempre meno supportata dalla fiducia verso le magnifiche sorti della ‘democrazia immediata’, le cui tracce e la cui consistenza appaiono incrinate da un uso spesso vicario e strumentale sul piano politico, e insieme poco coinvolgente su quello sociale.
Sicuramente a questo ritratto non è assimilabile l’atteggiamento più duttile ed aperto del Capo del governo: il quale però deve a sua volta fare i conti con una coalizione labile ed incerta su questo, come su altri temi, e composta per due terzi da una forza politica figlia della disintermediazione (i renziani), e da un’altra che è la madre dell’avversione verso l’ ‘intermediazione’ (appunto i Cinquestelle). Sullo sfondo rimane l’ultimo terzo (della suddetta coalizione), il Partito democratico, il quale però – come per altre questioni – sembra non sapere bene quale ruolo recitare in questa commedia. Per quanto a tratti si notino nelle sue dichiarazioni le ascendenze di altri approcci, basati sul rapporto più stretto, che arrivava fino all’ interdipendenza, con gli interessi organizzati, pure questo dna non prevale in modo esplicito: fino a richiedere un orizzonte d’azione diverso e aperto alla prospettiva del patto sociale.
Servirebbe una sintesi diversa, che non si trova abitualmente nelle corde di questa coalizione dominata dall’occasionalismo e dalla difficoltà strutturale di pervenire a programmi in grado di indicare forti direzioni di marcia. Ma forse dobbiamo più prudentemente accontentarci del fatto che queste difficoltà ed oscillazioni consentano almeno di tenere a freno le pulsioni più esplicitamente anti-union.
Solo una scossa può modificare le tendenze spontanee presenti in questo quadro. Ma se tale scossa non è venuta da fattori esterni (dalla Pandemia), possiamo davvero sperare che essa venga fattori interni e soggettivi (la ritrovata capacità di visione strategica della sinistra o qualche equivalente)?.
Mimmo Carrieri