L’incattivimento del paese è ormai evidente. Dal nord al sud l’avversione verso gli immigrati è diventata un sentiment comune. Un rifiuto delle ragioni dell’altro che non riconosce variazioni geografiche o stratificazioni di census. Il paese vive una dimensione di omologazione culturale in cui le differenze in termini di capitale (sociale, culturale o familiare) posseduto non producono più una diversa visione del mondo.
Non sembra più vero quanto sostenuto da Durkheim sulla diversa articolazione del pensiero: di tipo astratto e generalista nelle società in cui è pronunciata una divisione sociale del lavoro, più concreto e meno strutturato, in quelle più elementari in cui tale differenziazione è assente
Ho avuto modo di ascoltare professionisti affermati pronunciare parole di rozzo disprezzo verso gli stranieri non dissimili di quelle che ci potremmo aspettare dal lumpenproletariat senza cultura delle devastate periferie metropolitane. Nessun limite di fronte alle sofferenze degli scampati dalla guerra, dalle torture e dalle sevizie subite in Libia, talvolta dopo una terribile traversata del deserto del Sudan, e nessuna umana comprensione davanti ai morti annegati.
Gli immigrati, vivi o morti, non fanno più nessuna differenza: tutti comunque sono colpevoli di voler imporre la loro sgradita presenza in un paese che non li vuole e in fondo li disprezza.
Quella solidarietà del povero verso il suo simile che faceva di Roma, di Napoli e tante altre città, dei luoghi aperti dove riuscire comunque a trovare un riparo è ormai un ricordo del passato.
La rabbia ha travolto gli argini di umanità annullando le differenze di classe e creando una nuova comunanza di sentimenti e risentimenti che ridicolamente accumuna chi ha molto o moltissimo con chi ha poco o pochissimo; chi dalla lunga crisi ha avuto la sua vita pesantemente segnata e chi ha accumulato ricchezze che , con tutta la più buona volontà, non riuscirebbe a spendere. Immagini quasi da grande guerra, di miseria e di accumulazione e di estremi contrasti senza punti di incontro. Una strategia accorta e sapientemente orchestrata che scarica altrove la causa dei problemi rendendo invisibili le insopportabili diseguaglianze presenti nel nostro paese.
Sono saltate le mediazioni che la politica , seppure a fatica, ha sempre cercato di tessere per dare un simulacro di serenità al paese. Oggi è esattamente il contrario e la politica soffia sul fuoco per incendiare la prateria e scaricare sul capro espiatorio di turno le contraddizioni che non può e forse non vuole sanare.
Il ministro dell’interno è in questo maestro. La sua arma, una propaganda che non arretra, che si nutre del lato oscuro della gente e che queste ombre ingigantisce e riproduce senza filtri e pudore. Giorno per giorno, ora per ora. E’ lui il vero megafono della società incarognita con i 5 stelle ridotti a pallide comparse ormai senza voce e presenza.
Eppure, al di là della disintegrazione dei tradizionali partiti si sinistra, ci sono ancora nella nostra società persone e forze che a quella tradizione si rifanno e che alla regressione umana e culturale dell’oggi non si arrendono. Singoli intellettuali, religiosi di grande impegno civile che ora scendono in campo richiamando quel che resta della politica alle proprie responsabilità. E poi c’è il mondo del lavoro organizzato, il sindacato in prima fila che della solidarietà ha fatto la sua cifra, talvolta non riuscendoci, ma senza mai negarne il valore
E dal sindacato confederale che deve partire la riscossa: una riscossa politica e culturale al contempo. La riaffermazione del valore della solidarietà e una maggiore presenza fisica nei luoghi della sofferenza. Il sindacato è forte, ma debole è stata la sua azione fuori i luoghi di lavoro. E’ mancata forse una sua presenza nel mondo della solidarietà e del volontariato che è rimasto un luogo frequentato solo dalle organizzazioni religiose.
Il sindacato deve aprirsi a questo mondo, mettere a diposizione le strutture e gli uomini di cui dispone: medici , infermieri , insegnanti, docenti, per creare una rete di solidarietà fattiva, dimostrando nei fatti e non solo a parole che l’integrazione è ancora possibile e che il rispetto per la sofferenza umana rimane una valore da difendere.
A questa chiamata io sono convinto che i milioni di iscritti al sindacato non si sottrarrebbero. E la risposta potrebbe andare oltre le aspettative e porre le basi per una nuova fase politica; per una rifondazione dell’agire politico che cerca di dare risposta ai bisogni della gente, incidendo dove serve e senza scaricare sugli ultimi rabbia e frustrazione.