di Giuseppe Casadio
Il dibattito non è di quelli che suscitano grandi passioni, ma è indubbiamente aperto. E poiché la domanda è in sé radicale (si può abolire l’art. 99 della Costituzione?), vale la pena misurarsi con la questione partendo dai “fondamentali”. Senza tabù, ma con piena coscienza.
Scrisse M. S. Giannini nel 1950: “… nella nostra Repubblica… il solo lavoro dovrebbe essere il titolo di dignità del cittadino. Si osservi che su questo contenuto optativo (della Costituzione, ndr) vi è concordanza degli enunciati verbali di tutte le ideologie, le più svariate….” ; taluni altri giuristi insigni, a proposito della Costituzione del ’48, parlarono di “Costituzione lavoristica”, una peculiarità in chiave comparativa.
Da dove traggono origine tali valutazioni? E – per stare al tema – si può ricondurre questa mole di valori e significati al solo art. 99? Certamente no; ma ancor più sbagliato sarebbe intendere che l’art. 99 sia uscito per singolare stravaganza dalla mente di alcuni Costituenti particolarmente appassionati (Meuccio Ruini, Giuseppe Di Vittorio, Amintore Fanfani e pochi altri).
C’è, nella Costituzione del ’48, una filiera di enunciati che ben sostanzia i giudizi sopra richiamati: l’art. 1, innanzitutto, che non può essere inteso come pura declamazione retorica (come affermò il Presidente O. L. Scalfaro nel suo ultimo libro-intervista, non c’è nulla di retorico nella nostra Costituzione). Ma poi: il secondo comma dell’art. 3, l’art. 4, gli art. dal 35 al 40, l’art. 46 e, infine, l’art. 99.
Se tutti gli altri articoli citati sanciscono diritti e prerogative riconosciuti al lavoro – da intendersi ovviamente in tutte le sue manifestazioni: lavoro dipendente, autonomo, imprenditoriale, professionale, associato, manuale, intellettuale, creativo… – l’art. 99 fa, delle sue rappresentanze, una istituzione della democrazia.
Questa filiera di enunciati costituzionali configura una delle nervature del nostro modello democratico; e l’art. 99 ne è l’approdo, il punto di ingresso, anche simbolico, delle rappresentanze sociali nelle architetture dello stato.
Dunque il Cnel, finché esista, è, a pieno titolo, una istituzione rappresentativa. Non un comitato di saggi né un collegio peritale o altro del genere. E’ una istituzione che fa anche consulenza, ma in virtù della propria autonomia.
Istituzione “rappresentativa”. Di come interpretare nei fatti il requisito della rappresentatività l’art. 99, necessariamente, enuncia solo i criteri fondamentali; la legge è chiamata ad interpretarli in chiave dinamica, cioè tenendo conto delle trasformazioni strutturali che cambiano nel tempo i soggetti collettivi del lavoro e delle relazioni economiche. Senza esclusivismi. Diciamola necessariamente in sintesi:
– le organizzazioni effettivamente rappresentative del lavoro (con le articolazioni sopra enunciate);
– quelle dell’impresa (individuate con altrettanta lungimiranza);
– altre forme di aggregazione sociale non tradizionale, in quanto assumano rilevanza economica (poiché questo rimane comunque l’ambito di intervento del Consiglio);
– alcune competenze particolarmente qualificate capaci di arricchire di saperi pregiati il Consiglio, non a caso indicate dalle più alte magistrature della Repubblica.
Da questo punto di vista si può di certo affermare che sarebbe auspicabile una più frequente e trasparente manutenzione dei criteri di attribuzione delle quote di rappresentanza ai diversi soggetti associativi; ma la individuazione dei singoli componenti non può che essere lasciata alla discrezione delle organizzazioni individuate come rappresentative. A ciascuna di loro compete di designare i propri rappresentanti nel Consiglio nella piena consapevolezza del significato di quella designazione e dei compiti a cui i rappresentanti dovranno assolvere. In consapevole autonomia, quindi. Ciò che rileva ai fini della corretta funzionalità del Consiglio è che i designati garantiscano una effettiva rappresentatività delle posizioni sostenute dalle organizzazioni che li designano. Il Consiglio è, nella sua collegialità, istituzione; ciascun consigliere è tale in quanto portatore di una specifica rappresentanza.
In ragione di queste sommarie definizioni – per così dire, “ontologiche” – come possono/devono essere individuate le funzioni basiche, le attività fondamentali del Consiglio?
A me pare che l’intera attività di consulenza (al Parlamento e al Governo), la funzione di proposta (in forma di pareri o di progetti di legge), la funzione di monitoraggio e/o valutazione delle politiche pubbliche (di cui si avverte crescente l’esigenza), la più tradizionale e preziosa attività di redazione di qualificati rapporti tematici, tutto questo richieda che il Consiglio sappia dotarsi di una propria aggiornata capacità di “interpretazione” (auspicabilmente condivisa) dello stato e delle dinamiche evolutive che connotano sia i grandi comparti dell’economia (primario, secondario, terziario…) che i fattori fondamentali che influenzano il sistema economico-sociale (ad esempio l’immigrazione, le reti di socialità, l’efficacia e l’efficienza del sistema dei servizi pubblici…). Naturalmente, non essendo il Consiglio un Centro Studi (anche i Costituenti lo escludevano in esplicito), questa preventiva capacità di analisi può e deve essere sviluppata in sinergia con tutti gli altri segmenti del sistema istituzionale a ciò preposti (dalla Banca d’Italia all’Istat, al Cnr, ecc.). Ma non v’è dubbio che il Consiglio abbia necessità di una autonoma capacità di lettura delle dinamiche socio-economiche, filtrata dalla propria identità di istituzione rappresentativa. Diversamente ogni altra sua attività finisce per essere funzione “tecnicistica” che altri possono fare più e meglio.
Su un altro nodo concettuale che spesso compare – per lo più confusamente – nel dibattito corrente vale la pena soffermarsi. E’ “concertazione”, questa? o pre-concertazione, o cos’altro? Dove sta Villa Lubin rispetto alla Sala Verde di Palazzo Chigi?
Come ha sinteticamente detto anche il collega prof. Treu nell’Assemblea del 30 gennaio (se ho bene inteso), la concertazione è una modalità di governo, che vive o no in ragione di vari fattori contingenti: la temperie politica, la volontà dei soggetti di coinvolgere e farsi coinvolgere nelle scelte di governo dei processi. Non è una procedura; può dotarsi di procedure. Nella vita pubblica italiana reale degli ultimi decenni c’è stata una breve stagione in cui una esperienza autenticamente concertativa fu tentata: approssimativamente il tempo del primo Governo Prodi. Poi – mi si consenta la brutale semplificazione – venne il Governo D’Alema che decise unilateralmente di convocare in Sala Verde 50 organizzazioni (forse qualcuna in più), molte delle quali rappresentative del proprio autoproclamato “presidente pro tempore” e qualche suo parente. E la concertazione finì. Poi, ancora, fu il tempo degli accordi separati, delle rivendicazioni ideologiche di volontà concertativa, e poco altro. Al di là dei torti e delle ragioni. Il tutto in totale separatezza dal Cnel.
Volendo risalire più indietro nella vita della Repubblica, possiamo leggere, rispetto alle tematiche di cui qui ci stiamo occupando, per grandi cicli e senza alcuna precisione storiografica, alcune grandi tendenze determinanti per la vita del Consiglio.
Una fase di orgogliosa rivendicazione anche nei confronti dei Governi, da parte dei vertici del Consiglio, delle proprie prerogative reali e potenziali; a ciò corrispose anche una produzione reale di proposte molto importanti da parte del Consiglio, e comunque una capacità effettiva di intervento su grandi questioni (la riforma agraria, delle PP.SS….).
Poi, progressivamente, furono le parti sociali a sottrarre attenzione e quindi anche valore alle attività del Consiglio. Le grandi Confederazioni Sindacali volsero la propria forza crescente alla acquisizione di potere negoziale diretto nei confronti dei Governi e del Parlamento. In quella prospettiva il Consiglio poteva apparire, se non anche essere, un filtro inopportuno. Le associazione di impresa, per parte loro, sono “fisiologicamente” più propense ad una relazione di tipo lobbistico con il potere politico, e vi si adeguarono.
Per gli uni e per gli altri, comunque, si depotenziò rapidamente lo spirito costituente.
Oggi la questione merita di essere riproposta, in chiave non retrospettiva, a tutti gli attori, politici e sociali.
Di fronte ai problemi di oggi, alle difficoltà a riposizionare la nostra economia sui mercati globali, a ripristinare coesione in un corpo sociale sempre più frammentato, bastano relazioni di tipo solo negoziale o lobbistico tra i diversi corpi sociali, e fra ciascuno di essi e la politica? Il lavoro, pur nelle sue declinazioni contemporanee, non continua forse ad essere tratto costitutivo della dignità delle persone, e perciò meritevole di riconoscimento e valorizzazione? (Ce lo rammenta, da ultimo, anche la più autorevole cattedra morale dell’occidente: il Papa).
E, d’altra parte, il potere politico – oggi nel pieno della propria crisi di autorevolezza – può forse illudersi della propria autosufficienza?
La risposta a questi interrogativi è perfino banale. E dunque una istituzione come quella delineata dall’art. 99, liberata dalle scorie accumulate in cinque decenni, ricollocata nella contemporaneità, può tornare utile a ciò? Questa è la domanda oggi; non “quanto costa in euro ciascuno dei pochi disegni di legge varati in cinque decenni”.
E ritornando alle questioni di impianto sopra enunciate, c’è un’altra domanda altrettanto imprescindibile: in che misura l’eventuale abrogazione dell’art. 99 mutilerebbe la coerenza complessiva del nostro modello democratico? Davvero si può procedere a riformare il sistema istituzionale solo in ragione degli equilibri di bilancio?
Tuttavia, per non apparire troppo difensivi nell’argomentare, ci si ponga pure la domanda anche in modo più aperto: basta il Cnel che conosciamo a rispondere efficacemente alle esigenze che si stanno qui evidenziando? Qui la mia risposta è decisamente: no! No per la disinvolta noncuranza delle grandi organizzazioni della rappresentanza sociale. No per la propensione dello stesso potere politico a cercare, alla bisogna, interlocuzioni dirette con questo o quello degli attori sociali secondo logiche meramente lobbistiche e per lo più sotterranee. No per la scarsa autorevolezza e capacità di iniziativa con cui i vertici del Consiglio si rapportano al più generale panorama delle nostre istituzioni (troppo spesso, al di là delle buone intenzioni, sembrano vivere il proprio ruolo come una tranquilla sine-cura).
Allora, però, se così è, varrebbe la pena ricominciare da qui.
Ciascuno conosce la geografia dei poteri, e sa che l’abrogazione dell’art. 99 è ipotesi oggi effettivamente in campo, e potrebbe essere adottata senza suscitare grandi passioni. Ad un impegno però dovremmo sentirci tutti vincolati: fare il possibile affinché ogni eventuale decisione in tal senso non avvenisse nella sostanziale inconsapevolezza dei suoi significati, i più immediati e i più profondi.
Anche la Costituzione si può modificare, ma non surrettiziamente e per slittamenti progressivi.