Per chi avranno votato, lo scorso settembre, categorie come i benzinai e i concessionari degli stabilimenti balneari? Per i partiti di centro destra, preferibilmente, scommettono gli esperti. Se è così, Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia si trovano di fronte, in questi giorni, ad una assai pericolosa rivolta dei loro elettori. Ma, soprattutto, provano, in prima persona, cosa è l’Italia delle corporazioni, che loro, da sempre, vezzeggiano e qual è il precetto fondamentale di ogni corporazione: il rifiuto della trasparenza. E’ questo, infatti, il filo che unisce le due rivolte: il desiderio di coprire il proprio business ad occhi indiscreti. Per i benzinai, è il no ai cartelli che confrontino i prezzi medi con quelli che praticano, che possono essere giustificati oppure no. Forse più una impuntatura, piuttosto che un’ultima trincea. Ma comunque rivelatrice di una mentalità. Che esplode in grande nel caso delle spiagge, dove i concessionari praticano, ormai da quattro anni, una guerriglia senza sosta, per impedire che, in nome alle norme europee, le loro concessioni possano essere considerate qualcosa di diverso da vitalizi ereditari semigratuiti. Di diritto o di fatto.
Facciamo un po’ di numeri, perché gli stabilimenti balneari sono un business di tutto rispetto. Secondo una fonte autorevole come Nomisma, infatti, ombrelloni e lettini valgono, in Italia, un fatturato (ove dichiarato, ma questo è un altro discorso) di 15 miliardi di euro l’anno, ovvero l’1 per cento del Pil. Altro che bagnini e noccioline. E quanto incassa lo Stato dalla concessione degli spazi su cui vengono messi ombrelloni, lettini, con accesso al mare? Secondo l’Autorità per la Concorrenza, i concessionari pagano allo Stato, in totale, 115 milioni di euro l’anno. Ovvero, 70 centesimi ogni 100 euro di fatturato. Queste, sì, noccioline. E quanti sono i titolari di questa scandalosa rendita, capaci di tenere sotto scacco, da anni, un governo dietro l’altro, costretti a indietreggiare solo per la pressione dell’Europa? I concessionari del demanio marittimo sono 30 mila, ma, tolti porti, depositi ecc, i titolari di stabilimenti balneari sono, dice Legambiente, 14 mila. Un fatturato di 15 miliardi, diviso 14 mila persone, fa circa un milione di euro di incassi l’anno. Con tutti i difetti delle statistiche, certo. Ma questa è, a livello individuale, l’entità del business.
Se non lo fanno i politici, i sociologi possono spiegare perché un pugno di imprenditori, grazie al peso economico che esercitano in realtà urbane spesso piccole e al riflesso elettorale che ne deriva, è riuscito per decenni a ricattare i partiti e ad ingrassare le sue rendite. Fino al 2019, i 59 concessionari di stabilimenti della Costa Smeralda, pagavano, in media, 312 (trecentododici, non ci sono zeri)euro l’anno allo Stato. A Porto Cervo, un ombrellone con due lettini fruttava 400 euro al giorno.
Dal 2019, questo non è più possibile. La concessione non può fruttare allo Stato meno di 2.500 euro all’anno. Una cifra che resta ridicola, se si pensa ai megastabilimenti dei tratti più pregiati delle coste italiane. Tre concessionari su quattro, avverte l’Autorità della Concorrenza, pagano, però, esattamente quei 2.500 euro e nulla più. Non basta. Grazie ad una legge Berlusconi dal 2001, il concessionario può, anche in circostanze non eccezionali, subaffittare a suo piacere e per il tempo che ritiene necessario, lo stabilimento a prezzo di mercato. Sempre pagando solo 2.500 euro di concessione. Difficile trovare un esempio più esplicito di rendita ingiustificata.
Il governo, dove il ministro del Turismo, Daniela Santanché è, vedi caso, una del mestiere, sembra disposto a fare salti mortali per evitare che, come dispone una sentenza del Consiglio di Stato, questa indifendibile situazione venga azzerata e le concessioni rimesse a gara, riconoscendo agli attuali imprenditori avviamento ed eventuali investimenti. Fra le contorsioni di cui si sente parlare, c’è l’idea, che girerebbe a Palazzo Chigi, per cui, essendo l’Italia un paese circondato dal mare, c’è posto per tutti coloro che vogliono aprire stabilimenti, senza disturbare chi già lo ha. Come se un ombrellone alla foce del Volturno fosse intercambiabile con uno a Posillipo. Ma, anche qui, guardiamo i numeri.
Secondo Legambiente, il 42 per cento delle coste italiane è occupato da stabilimenti balneari. Lasciamo perdere l’ovvia curiosità sulla fruibilità di quanto resta. Quel 42 per cento copre, infatti, situazioni assai diverse. In Campania, Liguria, Emilia Romagna, le concessioni oscurano il 70 per cento del litorale. In Toscana e nelle Marche il 50-60 per cento. Ma sui 30 chilometri di costa della Versilia siamo al 90 per cento di spiagge non utilizzabili se non servendosi dei servizi dello stabilimento. A Riccione l’83, a Gatteo Mare il 90, a Ostia il 100 per cento. Sono dati di Legambiente. Ma nulla sappiamo della Sicilia, della Calabria, della Puglia, delle Marche.
Non è l’unico modo di gestire le spiagge. Né siamo gli unici ad averle. In Francia, una concessione balneare non può durare più di 12 anni e, nel loro insieme, non possono occupare più del 20 per cento della costa.
Maurizio Ricci