Prima c’era solo il nome del presidente, adesso Confindustria ha l’intero gruppo dirigente dei suoi prossimi quattro anni. Emanuele Orsini ha presentato la sua squadra, molto folta, con la quale porterà avanti la politica della confederazione degli industriali per il tempo del suo mandato. Delle passate acute traversie vissute nel corso della campagna elettorale non c’è più forse nemmeno il ricordo, adesso tutto il mondo confindustriale è proteso verso il futuro, con tante speranze e qualche timore. Dettato soprattutto dal calo fortissimo d’immagine che la confederazione ha vissuto negli ultimi anni e dalla necessità di rimontare quella china.
Sulla strategia che il nuovo presidente intende seguire, al momento c’è nebbia spessa. Ci si aspettava che Orsini presentasse al consiglio generale della confederazione, assieme alla squadra, anche il programma che intende svolgere, ma di questo testo non si è vista traccia. Il sito di Confindustria non riporta alcun documento, nessun giornale ha dato notizia di quanto il presidente vorrà fare nel prossimo futuro. Quindi, o al consiglio generale non è stato anticipato nulla, o si è deciso di non darne notizia. Sarà necessario attendere l’assemblea di fine maggio per saperne di più. Del resto, anche con la presentazione delle candidature alla presidenza erano state date alcune anticipazioni sui diversi programmi, ma molto generiche, di scarsa rilevanza.
Le attese sono però vive, perché importanti scadenze sono dietro l’angolo e non è possibile far finta di nulla, vanno affrontate e nel migliore dei modi. La prima, e forse la più importante per l’industria, è la campagna dei rinnovi contrattuali, ormai già avviata con qualche difficoltà. Mancano infatti le regole di fondo da seguire per affrontare questa scadenza: il Patto della fabbrica, del 2018, era ben fatto, presentava molte innovazioni e spunti di grande interesse, ma in parte non è stato attuato come forse si doveva fare, in parte è stato superato dagli eventi. Servono dunque nuove regole, e servirebbero subito, anche se è difficile riuscire a farlo. C’è, per esempio, il nodo del salario. Le classifiche internazionali, impietose, hanno mostrato al di fuori di qualsiasi dubbio, che i salari italiani negli ultimi venti anni sono rimasti al palo mentre quelli del resto d’Europa sono cresciuti, in alcuni casi anche molto. Il Patto della fabbrica aveva seguito le norme stabilite con un accordo interconfederale del 2009, secondo le quali i minimi salariali sarebbero cresciuti secondo il codice Ipca, cioè solo quanto l’inflazione, detratti gli aumenti dei costi internazionali dei prodotti energetici. Una norma che, soprattutto in presenza di aumenti pazzeschi dei prodotti energetici come quelli che sono stati registrati dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, ha depresso i salari italiani. Regole forse non più giuste, ma ancora valide, tanto è vero che Federmeccanica ha respinto la richiesta avanzata dai sindacati dei metalmeccanici per il rinnovo del contratto nazionale proprio appellandosi a quella regola.
Sarebbe necessario allora rivedere quella norma, ma lo si può fare solo all’interno di un patto generale. Lo stesso discorso vale per il nodo dei perimetri contrattuali. Adesso non è mai chiaro quale sia il contratto da applicare in una data azienda. Normalmente è il contratto attinente a cosa si produce, il contratto edili se si costruisce un palazzo, quello dei metalmeccanici se si costruiscono frigoriferi e così via. Il discorso diventa complicato quando, per esempio, una piccola azienda deve scegliere tra il contratto della sua categoria firmato per l’industria o quello per gli artigiani. O se la scelta si deve fare tra il contratto del terziario o quello dell’industria per una media impresa che produce servizi all’industria.
Servirebbero delle regole, dovrebbero essere certi i perimetri delle diverse aree contrattuali. Anche qui, facile a dirsi, molto complesso optare per l’uno o l’altro criterio. E poi ci sarebbero da riprendere e sviluppare alcune indicazioni contenute nel Patto della fabbrica e mai attuate. Prima tra le altre quella sulla partecipazione. Gli imprenditori non hanno mai accettato il principio della partecipazione, guardando almeno con sospetto al trasferimento di poteri di intervento sull’organizzazione del lavoro e, più in generale, sulla gestione dell’azienda. Quell’accordo del 2018 ne parlava invece in termini positivi, fino ad auspicare la realizzazione di forme di partecipazione alla gestione delle imprese. Indicazioni che però sono rimaste sulla carta, malgrado la sempre più diffusa consapevolezza che proprio attraverso la partecipazione potrebbero essere realizzati risultati di rilievo per la crescita della produttività del lavoro. Adesso, oltretutto, anche il parlamento si sta muovendo: è di questa settimana l’annuncio del sostanziale via libera della commissione lavoro della Camera al testo base per una legge sulla partecipazione presentato dalla Cisl di Luigi Sbarra, e che potrebbe arrivare in aula a maggio. Per Confindustria dunque si tratta di fare delle scelte. Quelle che il gruppo dirigente che Orsini ha stretto attorno a sé presto non potrà più rinviare.
Massimo Mascini