Il basso costo del lavoro e la compressione dei salari non possono essere più le leve per inseguire la competitività del nostro sistema produttivo, ha osservato di recente il professor Romano Prodi in un articolo sul Messaggero, pubblicato domenica 20 ottobre 2019. Prodi ha sicuramente ragione, dato che nel contesto dell’Europa occidentale i salari italiani sono stabilmente collocati nella fascia bassa e che le dinamiche salariali piatte del decennio che abbiamo alle spalle ci consegnano un potere d’acquisto medio addirittura diminuito rispetto al 2008, oltre ad un valore degli aumenti salariali ben inferiore alla somma di inflazione e produttività. E’ soprattutto nel nostro paese, come molti studi hanno evidenziato, che il margine di redistribuzione è negativo e che si verifica la dimostrazione di come le teorie del secolo scorso sul rapporto tra inflazione, salari e disoccupazione non funzionano più. La celebre curva di Philips è, al riguardo, un caso esemplare.
Se vogliamo far ripartire l’Italia, dunque, occorre cambiare le politiche economiche e sociali sin qui seguite e, soprattutto, innestare una nuova marcia nel campo delle politiche industriali. Alle tre mosse suggerite da Prodi – che, in estrema sintesi, riguardano burocrazia e giustizia, investimenti pubblici e privati, formazione e istruzione – mi permetto di aggiungere qualche altra proposta.
1. Si possono adottare tutte le scelte di politica industriale più giuste e opportune, ma non produrranno risultati significativi se in Italia il lavoro non tornerà ad essere contrassegnato da qualità, diritti e salari adeguati. Le riforme del mercato del lavoro degli ultimi venticinque anni hanno prodotto una nuova occupazione precaria e incerta, con tutele scarse e differenziate rispetto ai lavoratori più anziani e con un quadro giuridico sconvolto rispetto alle preesistenti basi del diritto del lavoro. La legislazione sul lavoro va ricostruita e su questa ricostruzione devono poggiare gli interventi per favorire e ampliare la contrattazione collettiva, tramite la quale far riprendere la crescita dei salari, sconfiggere la povertà nel lavoro, regolare i rapporti nella gig economy e nelle piattaforme digitali. Non si può aspirare a mantenere un posto al tavolo del G7, restando quindi tra le potenze economiche principali nel mondo, e, allo stesso tempo, pensare che la classe lavoratrice italiana resti debole e sia pagata poco e male. Se la competizione è sulla qualità, il lavoro non può essere dequalificato come, in misura non accettabile avviene oggi.
2. La formazione, la professionalità, le competenze dei lavoratori sono fattori decisivi, soprattutto in un mondo del lavoro che cambia e che sempre più richiede polifunzionalità, polivalenza, abilità linguistiche, capacità digitali. Le imprese e il paese devono tornare ad investire sulla formazione e sull’istruzione, non considerando più le risorse impegnate in questi ambiti come improduttive e assistenziali. E, dunque, va rilanciato il tema del diritto individuale alla formazione, della validazione delle competenze formali e non formali, dell’apprendimento lungo l’intero arco della vita. Il lavoro del futuro, la diffusione delle nuove tecnologie, la digitalizzazione delle imprese hanno bisogno di lavoratori preparati e ben addestrati. Se non c’è un grande piano nazionale di diffusione delle competenze digitali, il rischio è che una parte non piccola dei lavoratori di oggi non sia materialmente in grado di supportare la rivoluzione digitale, né di seguire in maniera attiva il processo di graduale aumento del contributo delle macchine ai sistemi produttivi e la corrispondente sostituzione di lavoro umano con robot e processi automatizzati.
3. Per guidare e orientare l’innovazione, l’industria italiana ha davanti a sé la doppia sfida della digitalizzazione e della sostenibilità. Il programma Industria 4.0 va proseguito definendo un percorso di progresso condiviso con l’insieme degli attori sociali, non solo con le rappresentanze delle imprese. L’obiettivo dovrebbe essere quello di conquistare per l’Italia posizioni apicali nell’industria dei sistemi e dei componenti elettronici e nei nuovi settori ITC, dai big data al cloud computing e all’intelligenza artificiale. Ciò presuppone il perseguimento di una maggiore dimensione internazionale delle imprese italiane delle alte tecnologie, assieme al superamento della gracilità dimensionale delle piccole e medie imprese high tech. Per quanto riguarda la trasformazione verso una economia green, è evidente che molti settori dell’industria italiana sono ancora ad alto consumo di energia. Per rispettare gli impegni assunti in sede europea e internazionale, c’è bisogno di un piano di trasformazione tecnologica che miri alla sostenibilità delle produzioni industriali e, in prospettiva, alla decarbonizzazione. Allo stesso tempo, vanno incoraggiati e finanziati i processi della “economia circolare”, ossia la manutenzione, la riparazione, il disassemblaggio e il riciclo dei prodotti. Così come vanno incentivati gli interventi mirati all’uso delle nanotecnologie come sostituti delle materie prime essenziali, alla generazione e distribuzione di elettricità a inquinamento basso o nullo, alle modifiche tecnologiche nel condizionamento termico degli edifici, alla diffusione di veicoli elettrici o ibridi e di motori per mezzi di trasporto alimentati con combustibili sintetici, con idrogeno o con gas naturale. A questo proposito, è fondamentale garantire una presenza qualificata e diffusa delle imprese italiane nel progetto della European Battery Alliance, che l’Europa sta supportando con l’obiettivo di non rimanere indietro rispetto ai grandi progressi sulle batterie per auto elettriche che si stanno realizzando in Cina e altrove. Affrontare la questione della “giusta transizione energetica”, infine, significa prevedere che i lavoratori e i territori coinvolti dal cambiamento non vengano chiamati a pagarne solamente il prezzo, ma che ne siano protagonisti e beneficiari.
4. Alla modernizzazione dell’infrastruttura industriale italiana – una modernizzazione che deve riguardare le reti delle comunicazioni, dei trasporti e dell’energia, i sistemi portuali e aeroportuali, la logistica e le strutture dell’intermodalità – si deve accompagnare una fase nuova nelle relazioni tra gli attori sociali. Da un lato, le forme moderne e attuali del dialogo sociale devono sempre più svilupparsi, mandando per sempre in archivio la stagione della cosiddetta disintermediazione e della presunzione di autosufficienza da parte dei governi e delle imprese. Dall’altra parte, credo che sia maturo il tempo per definire anche in Italia adeguati meccanismi di informazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori rispetto al processo decisionale e alla vita delle imprese. Non si tratta, a mio parere, di copiare acriticamente esperienze di altri paesi, né di teorizzare la assenza di ragioni di conflitto nella relazione tra impresa e lavoro, ragioni che sono insite nella diversità di interessi che entrambi questi attori rappresentano. La questione è, invece, definire per l’Italia un nuovo sistema di relazioni industriali, capace di interpretare la dimensione europea e globale dell’economia e del processo produttivo nel nostro paese, una dimensione che ormai non si governa più con gli strumenti del passato, tutti centrati su consuetudini e prassi nazionali. Anche nelle relazioni industriali, insomma, c’è bisogno di più Europa e di più spirito internazionale.
Fausto Durante