Dal 3 febbraio, Ivan Pedretti è il nuovo segretario generale dello Spi, il sindacato pensionati della Cgil. Ha sostituito Carla Cantone, passata alla guida della Ferpa, la federazione europea dei pensionati. A una settimana dalla sua elezione, il Diario del lavoro ha incontrato Pedretti a Roma, a via dei Frentani, dove si trova la sede nazionale della sua organizzazione.
Quello di Pedretti, 61 anni, nativo di Gardone Val Trompia, non è ancora un volto noto al grande pubblico. Ma non è improbabile che lo diventi, visto che lo Spi – con i suoi quasi tre milioni di iscritti – non è solo la federazione di categoria, se così vogliamo chiamarla, di gran lunga più grande della Cgil, ma, in assoluto, l’organizzazione sindacale più grande che ci sia in Italia.
Nella visione di molti, un sindacato di pensionati è un’organizzazione tranquilla che, tutt’al più, deve amministrare con saggezza le risorse provenienti da un cospicuo tesseramento. Ma, secondo Pedretti, le cose non stanno così. Per lui il sindacato pensionati deve essere, e può essere, non solo un fattore di coesione sociale, ma addirittura un motore di innovazione, all’interno e all’esterno del mondo sindacale, dando precise indicazioni su come devono cambiare i sindacati dei lavoratori attivi e la contrattazione.
Allora Pedretti, nella Dichiarazione programmatica che ha svolto davanti all’assemblea generale dello Spi prima della sua elezione, ritornano più volte quelle che mi sono parse come tre parole chiave: territorio, contrattazione sociale e innovazione. Cosa c’entrano con i pensionati?
Innanzitutto devo dire che è vero, questi concetti stanno da tempo al centro della nostra riflessione e, vorrei dire, anche delle nostre esperienze. Sono, infatti, concetti che stanno insieme e si sostengono a vicenda nell’ambito di un’unica impostazione.
E quali sono i nessi che li legano?
Per rispondere debbo partire dalla parola territorio e dal concetto di contrattazione sociale. O, meglio ancora, debbo partire da una domanda: Che cos’è, cosa deve fare un sindacato di pensionati? Nel nostro caso, a monte di tutto c’è un’idea di Giuseppe Di Vittorio: costruire un’organizzazione sindacale che rappresenti i lavoratori che sono usciti dal lavoro. Come? Essenzialmente, in primo luogo, esercitando una tutela individuale che consenta al singolo lavoratore di usufruire dei propri diritti di pensionato, codificati dalla legislazione. A questo si è aggiunto un lavoro sulla memoria storica, volto a dare un’identità che non può più essere quella di categoria, ma è quella di chi ha partecipato a un movimento di lotta e di emancipazione.
E poi?
Il passo successivo si è imposto quando abbiamo cominciato a capire che si delineava un fenomeno nuovo per la nostra società: quello dell’invecchiamento della popolazione. Un fenomeno che pone problemi seri per tutto il precedente assetto del sistema di welfare e, quindi, bisogni nuovi. La nostra riflessione ci ha fatto approdare all’idea che, in questa situazione, l’organizzazione dei pensionati deve diventare sempre più un sindacato generale. Soprattutto, un sindacato generale che contratta.
Contratta che cosa? E con chi?
Ecco, è qui che si arriva al nesso fra territorio e contrattazione sociale. Perché un sindacato sia radicato nel territorio, deve essere capace di accorgersi dei nuovi bisogni cui accennavo. Potrà trattarsi della necessità di superare una barriera architettonica che impedisce a un anziano in carrozzella di fare un dato percorso o di accedere a un edificio pubblico. In tal caso, la controparte potrà essere il Comune rispetto a un problema di viabilità. Oppure l’azienda pubblica dei trasporti, se ci si trova davanti a un problema di orari o di percorsi, e quindi di estensione, di una linea di autobus. O, ancora, l’azienda sanitaria locale, per un problema connesso alla tutela della salute. Per tornare al Comune, o alla Regione, se il problema è quello di studiare forme di agevolazione fiscale a favore degli anziani.
Quindi, vi occupate sempre e solo di anziani.
No, perché partendo dalla tutela dei nostri rappresentati, cioè dei pensionati, e quindi degli anziani, si finisce per occuparsi di problemi di interesse generale. La rimozione della barriera architettonica, per restare nell’esempio appena fatto, agevolerà anche il giovane disabile o la madre che porta in giro il suo bambino con la carrozzina o con il passeggino. Lo stesso vale per la dislocazione delle fermate di un autobus. Si comincia a occuparsi dei problemi avvertiti con particolare acutezza dagli anziani, e si arriva a tentare di risolvere problemi comuni a molti abitanti di un dato territorio. Mi permetto quindi di dire che la contrattazione sociale è la frontiera nuova, e attualissima, del sindacato confederale.
Tutto questo, in teoria.
No, anche in pratica. Ormai la contrattazione sociale, che svolgiamo sempre in termini unitari assieme a Fnp-Cisl e Uilp-Uil, si concretizza in qualcosa come 2mila accordi all’anno. E si concretizza in accordi che affrontano anche tematiche relativamente complesse, come quelli che hanno portato – ad esempio in Toscana e in Emilia-Romagna – all’apertura delle cosiddette Case della salute.
Di cosa si tratta?
Sono strutture che hanno una duplice funzione, preventiva e assistenziale. Strutture sanitarie che, da un lato, consentono di decongestionare gli ospedali e, dall’altro, di offrire una serie di servizi alla popolazione. Insomma, di essere più vicini ai bisogni dei cittadini, risparmiando anche qualcosa in termini di spesa sanitaria. Tutto questo, ovviamente, vale innanzitutto per gli anziani, ma anche per il resto della popolazione. Un classico esempio di cosa possa voler dire mettere insieme la tutela individuale con quella collettiva.
Bene, ma cosa c’entra l’innovazione?
C’entra da diversi punti vista. Uno lo abbiamo appena citato. L’invecchiamento della popolazione fa sì che non serva più solo l’ospedale, inteso come luogo in cui trattare problemi sanitari in fase acuta. L’esistenza di un numero crescente di persone anziane, e l’allungamento del tempo di vita dei singoli anziani, fa sì che i servizi offerti dalla sanità pubblica debbano differenziarsi e arricchirsi. In ogni caso cambiare. E qui il sindacato che organizza gli anziani può ovviamente essere motore di cambiamento.
Ma questo non è tutto. Perché, per restare al campo della tutela della salute, un sindacato pensionati che sia animato da un sincero spirito confederale può essere interlocutore privilegiato anche dei sindacati dei lavoratori impegnati ad assicurare tali tutele. Torniamo all’esempio delle Case della salute. Qui oggi possiamo incontrare lavoratori le cui prestazioni sono normate da diversi contratti: funzione pubblica per i dipendenti delle Asl; cooperative di servizi privati per i dipendenti di cooperative che integrano, appunto, l’operato dei dipendenti pubblici; metalmeccanici per ciò che riguarda la manutenzione e l’operatività di apparecchiature elettromedicali o di impianti di climatizzazione.
Tutti con regole e trattamenti diversi per ciò che riguarda salari e orari, ma tutti attivi nello stesso luogo e, in ultima analisi, con le stesse finalità. Ecco, il sindacato che organizza e tutela gli anziani può essere, quanto meno, il soggetto cha alimenta, all’interno del sindacato, l’attuale discussione sulla struttura contrattuale.
Infine, un sindacato attento ai mutamenti che si verificano sul territorio può dare un contributo significativo, sul piano organizzativo, al dibattito relativo a se e come ridisegnare le Camere del lavoro.
Problemi complessi.
Certo, molto complessi. Ma non possiamo evitare di affrontarli. Il fatto è che il sindacato ha ancora la testa nel ‘900, mentre ormai siamo nel Terzo millennio.
In che senso?
Io ho cominciato a lavorare in Val Trompia nel 1969, in una piccola azienda artigiana che aveva 4 dipendenti. Poi sono passato a una più grande, con una cinquantina di dipendenti e, infine, nel 1973, a 19 anni, sono stato assunto alla Mivar, un’azienda con circa 300 addetti. La Mivar produceva motorini, ma era in fallimento. La Baretta la rilevò per espandere la sua produzione armiera. Ricordo questo per dire che ho vissuto direttamente tutta la fase della costruzione del cosiddetto sindacato dei Consigli. Una fase di innovazione contrattuale e organizzativa in cui noi giovani spingevamo per superare le vecchie Commissioni interne e mettere su i Consigli di fabbrica. Ebbene, in quegli anni noi delegati non ci limitavamo a stare nelle nostre fabbriche, ma uscivamo nel territorio per andare a sindacalizzare le piccole e piccolissime aziende circostanti. E, inoltre, per mettere in piedi i cosiddetti Consigli di zona. Poi, negli anni successivi, finita quella spinta, il sindacato si è progressivamente trincerato nelle fabbriche medio-grandi. Quelle stesse fabbriche le cui dimensioni, e la cui importanza, si sono venute riducendo almeno a partire dagli anni 90 e poi, in modo più accelerato, negli anni della crisi.
E quindi?
Quindi non si può rispondere alla crisi di rappresentanza di cui oggi soffrono i sindacati puntando solo su strutture verticali come quelle dei sindacati nazionali di categoria. Bisogna accettare la sfida del cambiamento. E allora, da un lato, bisogna lavorare nella dimensione europea, dall’altro bisogna rimodellare, sul piano nazionale, un Welfare di garanzia generale. Ma questo non basta se non si ritorna al territorio. Infatti, poiché tendenze generali, come quella all’invecchiamento della popolazione, producono effetti diversi al Nord o al Sud e, comunque, in zone diverse del nostro paese, è solo stando sui territori che si possono costruire risposte adeguate ai diversi nuovi bisogni.
Oggi, tra l’altro, la presenza dei partiti politici nella società si è, a dir poco, rarefatta. Tanto più forte è l’esigenza che sia il sindacalismo confederale a svolgere un’azione di coesione sociale. Un’azione che, a sua volta, sia capace di far sì che gli anziani, e anche gli altri cittadini, non si sentano abbandonati. La fragilità della solitudine sociale espone tutti all’azione di forze disgregatrici, come il leghismo. Invece c’è sempre più bisogno di coesione fra italiani, come fra italiani e lavoratori immigrati.
Lei ha parlato delle sue prime esperienze lavorative e sindacali in Val Trompia, cioè in provincia di Brescia, zona metalmeccanica per eccellenza. D’altra parte, nella Dichiarazione fatta davanti al gruppo dirigente dello Spi, ha parlato dei Segretari generali della Fiom che hanno influito sulla sua formazione sindacale. Cosa le è rimasto di queste esperienze?
Credo molto perché, effettivamente, mi sono formato nella Fiom. In particolare ricordo Bruno Trentin, l’intellettuale che parlava al lavoro, il segretario generale della Fiom che, da un lato, ci insegnava a studiare l’organizzazione del lavoro, a capire dove eravamo collocati nella vita produttiva, e, dall’altra, insisteva sull’importanza decisiva dei diritti collettivi e individuali dei lavoratori, in fabbrica e fuori. Poi Pio Galli, il suo successore, un operaio che si assunse la responsabilità di guidare il più forte sindacato industriale, sempre attentissimo all’impostazione unitaria dell’azione sindacale. E poi Angelo Airoldi, che teneva insieme ambizione strategica e attenzione agli altri e alle loro idee. E’ questo il bagaglio che ho portato con me nelle mie varie esperienze sindacali, dalla Fiom nazionale, dove fui chiamato proprio da Pio, nel 1982, alla Fiom e poi alla Camera del Lavoro di Verona, e poi su, su fino alla segreteria della Cgil del Veneto e alla segreteria nazionale dello Spi, di cui sono entrato a far parte, nel 2010, per iniziativa di Carla Cantone.
@Fernando_Liuzzi