1.Una delle prime cose che si impara facendo il sindaco è che tu rappresenti tutti, non solo chi ti ha votato. Se non lo impari da solo te lo dice la gente per strada: “Io non l’ho votata ma sappia che lei è il mio sindaco”. Se rappresenti tutti non ti puoi chiudere a rispondere solo alle richieste dei tuoi: e viene fuori la difficile ricerca del “bene comune”, vera sfida di ogni primo cittadino. Bene. Quando sento la Presidente Meloni dire, quasi a giustificarsi: “Abbiamo fatto quel decreto per coerenza con le cose promesse in campagna elettorale” mi è chiaro che sta andando da un’altra parte, che non ha voglia di rappresentare tutti gli italiani. Libera di scegliere cosa fare, ovviamente. Ma quando poi parla di riforma presidenzialista cosa intende? Un presidente che rappresenta solo chi lo ha votato? Molto meglio il ruolo di presidente che abbiamo adesso…
2.Il Presidente Mattarella quando parla dell’Italia dice “La Repubblica” (avete sentito quante volte l’ha ripetuto nel bel discorso del 31 dicembre?), La Meloni quando parla dell’Italia dice “La Nazione”. C’è differenza? Ammazza se c’è, eccome! Andatevi a leggere i due termini nel dizionario Treccani e vi accorgerete che Nazione implica una identità di nascita, di lingua, di religione, (se non di razza…). L’idea di Repubblica comprende tutti i cittadini (indipendentemente dalle loro origini e dalle differenze) e gli organi dello Stato. Del resto, la nostra è la Costituzione della Repubblica italiana e non della Nazione italiana. Lei stessa è Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, non della Nazione… I lapsus linguistici rivelano i pensieri nascosti, ma per la Meloni non è un lapsus, lo dice di continuo: vuol dire che è proprio convinta! Come si concilia la sua idea di Nazione con l’idea di rafforzare l’Unione Europea lo sa solo lei… (e forse Orban)
3. Devo fare una critica (e anche un’autocritica). Avete seguito la conferenza stampa di fine anno della Meloni? 3 ore di domande e risposte precise. Io l’ho seguita e vi confesso che si può anche non essere d’accordo su molte cose che ha detto (il ruolo dell’MSI, il fisco, i no-vax, le pensioni, i bonus reiterati…) ma la persona è sicura di sé e soprattutto sa tenere il banco come pochi politici attuali sanno fare. Lo ha confessato lei stessa: si è fatta le ossa nelle assemblee universitarie… e si vede. Questo per dire cosa? Che le critiche sono un diritto ma se l’opposizione di sinistra continuerà a polemizzare esclusivamente sul passato, la storia, le radici politiche della Presidente, dirà cose vere ma farà poca strada. Anzi, per usare una metafora calcistica, consentirà facilmente alla Meloni di ributtare la palla nell’altra metà campo: “Noi vogliamo fare il bene della Nazione, voi solo polemiche…” Occorre cambiare gioco: avere idee concrete di cosa è giusto e di cosa è sbagliato fare per il bene del Paese e dei suoi cittadini, guardando al futuro. Sventolare il diverso DNA politico, oggi non sposta i consensi. I consensi crescono o calano a seconda di cosa fa il Governo oggi, e non di chi la Meloni o La Russa frequentavano ieri a Roma o a Palermo o a Milano. Altrimenti tanta gente non avrebbe messo la croce sulla fiamma tricolore.
4.Ieri qualcuno su FaceBook mi ha fatto una domanda: ma quando parli di “opposizione di sinistra” cosa intendi esattamente? Non quella che c’è oggi, certo. Per rispondere bisogna capire il Cosa, il Come, e il Chi? Cosa è facile: partire dai bisogni veri delle persone e del territorio e corrispondere nuovi servizi, nuove attività e nuovo lavoro in una logica di sostenibilità ambientale, sociale ed economica (come da Agenda Onu 2030), tenendo insieme ecologia e benessere, il mondo e tutte le sue creature (come dalle Encicliche di Papa Francesco), riducendo e non ampliando le diseguaglianze (questo ultimo punto è ciò che distingue nettamente una politica di sinistra da una di destra, secondo me: anche da una destra populista come quella che sta al Governo che dice che tutto si risolve togliendo i vincoli alle imprese). Come farlo? Rifondare il PD è necessario ma non sufficiente: nessun partito può avere oggi il monopolio di rappresentanza della sinistra. Quel che occorre è costruire una rete di soggetti sociali (laici e cattolici) che condivida la strategia del cosa e articoli il come tradurre quella strategia nei territori (non solo a Roma). Non già una coalizione elettorale ma una rete che colleghi strategia e cittadini. Sul Chi può avviare questo percorso non saprei dare una risposta netta: è il vero problema della sinistra di oggi. La priorità è tornare in mezzo alla gente ma c’è molto da lavorare (e da sporcarsi le mani). Lo faranno almeno i sindacati? Riusciranno ad allargare la loro rappresentanza? Speriamo.
5. Avete letto l’articolo di Nando Pagnoncelli sul Corriere di martedì 3 gennaio? Fatelo se potete perché l’indagine di IPSOS è davvero importante per capire quali sono le priorità da affrontare secondo gli italiani (e come sono cambiate negli ultimi anni). Dietro un’analisi molto articolata emerge che a larga maggioranza i problemi più urgenti da risolvere per gli italiani sono soprattutto 2: il lavoro e l’economia da un lato, il welfare e l’assistenza dall’altro. Rispetto agli anni scorsi la prima esigenza (lavoro ed economia) viene confermata mentre raddoppia il peso della seconda (welfare e assistenza). Quando si scende alle priorità locali (nel territorio di residenza) saltano fuori anche la mobilità e le infrastrutture, e l’ambiente. Fa impressione leggere quell’articolo perché si misura a ogni riga la distanza tra la politica e la realtà (e tra gli indirizzi del Governo e le condizioni concrete di vita dei cittadini). Solo un’osservazione. Se dal punto di vista dell’indagine è giusto tener separati i temi, dal punto di vista delle politiche è sbagliato. Nel senso che è impossibile pensare di rafforzare il welfare e migliorare l’assistenza senza promuove e formare nuovo lavoro. Trattare il lavoro come un fattore debole da assistere e il welfare della persona come un sistema da arricchire con risorse private è una scelta di destra (chiunque la proponga). Creare un welfare di prossimità per assiste le persone e prevenire i rischi del territorio significa creare nuovo e qualificato lavoro.
6.Viviamo in un incredibile paradosso! La strategia per una “nuova sinistra” che coniuga insieme difesa del pianeta e benessere delle persone (tutte, a partire dagli ultimi) è già stata scritta nei dettagli da qualche anno (Agenda Onu 2030). E la “sinistra esistente” non se ne è accorta. Adopera qualche volta quelle parole ma non le traduce mai in politiche concrete: né dove sta al governo, né dove sta all’opposizione. A me pare una cecità davvero allarmante. Mi vengono in mente solo due possibili spiegazioni (tra le tante) del paradosso. Una più leggera, una più pesante. Quella più leggera è che la sinistra esistente sia impegnata in altro che nella ricerca di una nuova strategia: in ingarbugliati percorsi di rinnovamento dei leader piuttosto che non delle politiche. Insomma nella difesa di una collocazione personale futura più che in un lavoro di rigenerazione. E questa è la più leggera. L’altra, più pesante, che spero non sia (del tutto) vera, è il sospetto che la “sinistra esistente” sia un’astrazione, un semplice collocamento sul terreno di gioco: se gli altri sono di destra (e lo sono davvero!) allora noi siamo automaticamente di sinistra. Ecco, è quell’”automaticamente” che non sta in piedi. In politica si è per quello che si fa e non per quello che si dice, si scrive sui social o per come ci si mostra sui selfie. Se le cose stanno come temo sarà molto difficile costruire una “nuova sinistra sostenibile” dato che la “presente e viva e il suon di lei” non c’è più da tempo. Un duro lavoro quotidiano nei territori, di riconnessione tra i cittadini e le istituzioni, non un breve impegno elettorale per essere eletti al prossimo turno.
7.Sull’autonomia differenziata sarebbe bene dirci le cose come stanno e smettere di prenderci in giro. C’è un eccesso di omogeneità in questo Paese? Abbiamo tutti un sistema di Welfare talmente uguale e garantito che è giusto che qualcuno possa provare a fare qualche miglioramento regionale o locale? A me pare di sognare… In questo Paese ci sono 20 sistemi sanitari regionali diversi, invece che un Sistema Sanitario Nazionale uguale per tutti. Tant’è che c’è da anni una “migrazione sanitaria” da una regione a un’altra. Per non dire del sistema dei trasporti pubblici (fuori dal circuito dell’Alta Velocità). O di quello dei rifiuti che esporta “monnezza” anche all’estero perché in molti Comuni (a partire da Roma) non sono in grado di trattarla e smaltirla (neanche di raccoglierla per essere precisi). Insomma, non facciamola troppo lunga: in Italia non sono garantiti i Livelli Essenziali di Assistenza (previsti dalla legge) e nemmeno i Livelli Essenziali di Prestazione. Andate a vedere su Internet cosa vogliono dire i Lea e i Lep e vi verrà da ridere, se non da piangere, nel misurare la distanza tra la normativa e la realtà. Ma non è finita qui. I disservizi derivano da una macchina amministrativa-istituzionale sconnessa sia a livello regionale che locale. In più, capolavoro della sinistra, sono stati eliminati gli Enti di Area Vasta (le province) e create le presunte Città Metropolitane che per funzionare dovrebbero ciascuna coordinare le scelte di centinaia di Comuni (La CM di Torino ne conta più di 300). Per non dire delle numerose e abbandonate aree interne del Paese (4000 Comuni, 60% della superficie e 23% della popolazione nazionale). Insomma, una situazione in cui sarebbe necessario inventarsi un nuovo sistema di coordinamento e uniformità delle politiche e dei risultati (altrimenti anche il PNRR rischia un uso non coerente). E invece il Governo ci propone l’Autonomia differenziata? Un delirio logico e politico (che temo sia consapevole).
8.Ieri (Corriere della Sera, Domenica 8 gennaio) Enrico Marro ha spiegato bene che la disoccupazione giovanile nel nostro Paese è crescente e una delle più alte a livello europeo. Una disoccupazione dovuta alla combinazione di lavoro non trovato e lavoro non cercato, di una domanda che non incontra un’offerta adeguata e anche il contrario: che l’offerta competente non trova lavori soddisfacenti per esprimersi. Il risultato è un precariato diffuso, mal pagato, senza aspettative, diritti e dignità. C’è anche un precariato come voluta scelta “transitoria” per una vita che prescinde dal lavoro, un ampliarsi dello smart working dall’emergenza alla normalità, un crescere delle dimissioni volontarie, ma tutto questo non cambia il quadro generale del mercato del lavoro. La elevata disoccupazione giovanile è il risultato dell’assenza cronica di politiche economiche serie per la crescita e per il lavoro. Con l’infinita sequela di bonus alle aziende cui continuiamo da anni ad assistere (“C’è un problema? introdurremo una agevolazione fiscale…”), non si sposta la realtà. Occorrono investimenti mirati, non abuso di spesa corrente. Invece il disinvestimento dello Stato sulle nuove generazioni ha storia antica e multipla. Da almeno venti anni il numero dei laureati sui giovani in Italia è sotto la media europea. Adesso siamo arrivati a essere i penultimi dei 27 Stati membri, subito prima della Romania: da noi la metà esatta della percentuale di giovani che si laureano in Francia. Descrivere oggi le tante facce del mercato del lavoro alla ricerca di provvedimenti tampone significa intervenire sui sintomi senza occuparsi della cause: placebo al posto di farmaci veri, per usare una facile metafora. Se le cause della disoccupazione-sottoccupazione sono legate alle basse dinamiche della domanda e alla scarsa innovazione (non solo tecnologica) del sistema Italia allora è il sistema che va riconvertito verso una maggiore sostenibilità. I nuovi bisogni ci sono, sono le nuove politiche che mancano.
9.Sul Corriere del 5 gennaio un’importante intervista sul tema dello smart working di Michele Tiraboschi (ordinario di diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore scientifico di Adapt, l’associazione di studi sul lavoro fondata da Marco Biagi). Tiraboschi sostiene con argomenti convincenti che il lavoro “da remoto” si sta diffondendo anche oltre la pandemia e che è divenuto una delle tipologie “normali” del lavoro. Spesso la preferita da molti di noi. Al di là delle relative “comodità” del lavoro da casa (il non dover uscire, la maggiore flessibilità, l’autogestione, ecc.) questa tipologia di prestazione obbliga a cambiare il nostro atteggiamento (anche sindacale) nei confronti del lavoro. È una forma di lavoro autonomo e indipendente? Certamente no, se lo si svolge in un’impresa (produttiva o di servizio) ma certo non è più il lavoro dipendente del passato. Solo alcune osservazioni personali sollecitate dall’intervista di Tiraboschi. Intanto non c’è più un solo modello di lavoro da uniformare nelle regole e diritti esistenti (contrattuali e di legge): i CCNL più importanti faticano ancora ad uscire dalle categorie industrial-sindacali del fordismo (vedi i sistemi di inquadramento) mentre le tipologie di lavoro si ampliano. Mi vengono in mente gli anni in cui si diffondeva il “lavoro a domicilio” e il dibattito tra chi voleva semplicemente vietarlo e chi invece pensava andasse in qualche modo regolarizzato. Lo smart working non è un’anomalia da riportare alle regole esistenti e nemmeno (solo) un modo per camuffare un lavoro sottopagato e senza regole, o per fingere che un lavoro dipendente sia indipendente. Neppure qualcosa che abbia a che fare con presunte “fragilità” di chi lo svolge. È una innovazione da studiare e regolare di per sé che può produrre altre innovazioni generali. Lo smart working, ad esempio, trasforma l’idea di “orario di lavoro” in un’idea ancora tutta da analizzare di “tempo di lavoro”, molto più autogestito dell’orario contrattuale (in meno o in più). La retribuzione dello smart working se non è da ore di lavoro effettuato da cosa dipende? Dalla realizzazione autogestita di un compito affidato dal comittente? Dalla collaborazione a un gruppo di lavoro (smart e non smart) che realizza un progetto pre-concordato, magari in uno spazio di co-working? E chi concorda (contratta) queste condizioni? Il singolo o contratti collettivi flessibili che comprendano anche le “condizioni minime” dello smart working? Chi decide se la collaborazione è stata soddisfacente oppure no? Sono domande alle quali è difficile rispondere prima di una urgente e diffusa sperimentazione anche contrattuale del fenomeno.
10.Ieri, in una delle belle rassegne stampa che organizza tutte le sere RaiNews24, Ferruccio de Bortoli ha fatto notare che molti paesi occidentali (Usa, Germania, Francia) stanno investendo soldi pubblici per rilanciare l’economia e l’occupazione. Tant’è che molte grandi aziende stanno pensando di trasferirsi in questi paesi in cui sono maggiori le “convenienze” anche per le imprese private. Che insomma di fronte alle emergenze e alla crisi “sistemica” in atto ci si allontana dal “mercato”, libero ma insufficiente a risolvere i problemi e si torna a un ruolo centrale degli investimenti pubblici. Personalmente penso che il ruolo del soggetto pubblico in economia sia indispensabile e determinante anche nei periodi di non crisi, perché il liberismo puro produce uno sviluppo diseguale nel tempo e nello spazio, anche quando pretende di essere globale. Ma restiamo al giusto rilievo di de Bortoli: grandi Paesi (certamente non socialisti e nemmeno socialdemocratici) stanno investendo risorse pubbliche direttamente, per riavviare la macchina (ed evitare insieme inflazione e recessione). Devo confessare che dal Governo Meloni mi sarei aspettato (anche per antichi retaggi politico culturali di quel partito) una maggiore attenzione al ruolo pubblico (di indirizzo e di intervento diretto) nell’economia. Invece non si va oltre gli aiuti diffusi: i bonus, le defiscalizzazioni (promesse e non sempre mantenute) alle aziende (tutte). Insomma: stiamo perdendo un altro treno rispetto alle dinamiche della crisi e all’urgenza di uscirne con un nuovo modello di sviluppo e di lavoro. Certo, toccherebbe all’UE rendere più coordinate e omogenee le politiche anti crisi. Però sarebbe bene avviarci anche noi in quella direzione.
Gaetano Sateriale