Il diario del lavoro ha intervistato Ivan Pedretti, segretario generale della Spi Cgil, per chiedere quali sono le azioni da mettere in campo per affrontare la crisi. Per il sindacalista, lo Stato deve aprire una stagione di grandi riforme, come quelle realizzate negli anni ’70, investendo su istruzione, formazione, ricerca, sanità.
Pedretti, come valuta la situazione che l’Italia sta affrontando in questa fase?
Le difficoltà sono quelle di una pandemia che ha determinato una crisi profonda e messo in evidenza delle forti criticità. Soprattutto nel tema delle protezioni sociali, sia in campo socio-sanitario sia per quanto riguarda la protezione dei diritti dei lavoratori di fronte a situazioni complesse come queste. Ci si sta interrogando su come si può trasformare questa crisi come una opportunità.
Quali sono le opportunità che si potrebbero cogliere da questa crisi?
Serve un cambiamento che intervenga su tutto il sistema produttivo, come il sistema energetico, utilizzando le energie pulite, assumendo il tema della tutela ambientale all’interno delle attività produttive. Penso che le innovazioni tecnologiche ci possano consentire nuove forme di produzione che rispondano alle esigenze ambientali e del lavoro. L’altro problema da affrontare è rappresentato dalle forti difficoltà del welfare di prossimità.
In che senso?
È più necessario di ieri avere una legge nazionale sulla non autosufficienza, ci sono troppe lacune. Non abbiamo case della salute territoriale, è stato smantellato un servizio sociosanitario territoriale, intervenendo prevalentemente sul sistema ospedaliero. In Lombardia ci sono ospedali di eccellenze ma davanti alla pandemia la popolazione si è trovata senza protezioni.
Come è stato possibile questo paradosso?
L’ospedale non era attrezzato a rispondere a situazioni di infettologia simili, le case di riposo sono state una sorta di scollamento da parte delle persone anziane messe negli ospedali e ritrasferite nelle case di riposo. I medici di medicina generale non sono stati in grado di corrispondere con capacità e sicurezza ai bisogni dei cittadini. Si è dimostrato che dobbiamo investire su un sistema sociosanitario di prossimità. Mettere insieme le diverse soggettività, i medici generali, gli specialisti, le badanti, gli assistenti sociali dove il cittadino, prima di finire all’ospedale ha una sorta di filtro di prevenzione.
In teoria medico di base già svolge questa funzione.
Si, ma negli anni è diventato una sorta di scribacchino che fa le ricette. Quando sono bene organizzati, i medici di base si mettono insieme in due o tre al massimo per riuscire ad avere a disposizione una segretaria comune, ma manca una organizzazione articolata sul territorio. Ad esempio, non c’è una casa della salute, un consultorio territoriale, i piccoli ospedali sono stati chiusi, molte realtà, come i piccoli comuni, non hanno un presidio sanitario, l’assistenza insomma è stata tolta di mezzo. Se una persona ha in casa un non autosufficiente, se è fortunato ha una assistenza di due ore alla settimana. È quindi necessario un sistema dei servizi più adeguato alla condizione territoriale, e l’ospedale ha dimostrato non essere la risposta più efficace a crisi come questa. Lo dimostra l’azione di prevenzione territoriale fatta in Toscana, in Emilia Romagna e qualcosa in Veneto, dove la risposta alla pandemia è stata più efficace; ma dove tutto questo si è smantellato, trasferendo al privato parte dei servizi sanitari, si è rilevata l’inefficacia di queste scelte.
Se fosse successa la stessa pandemia negli anni ‘90 la situazione sarebbe diversa?
Avremmo avuto strumenti maggiori. In passato gli ospedali erano costruiti diversamente, erano a “raggiera”, e quando c’era una infezione un reparto poteva essere isolato dal resto della struttura. In questi ultimi anni invece, abbiamo costruito nuovi ospedali pensano non avvenissero più pandemie, quindi a grandi corridoi comunicanti tra di loro, sicuramente più efficienti in linea generale, ma quasi inservibili di fronte a una pandemia.
Cosa si dovrebbe fare?
Bisogna cogliere questa difficoltà, comprenderla e investire in misura significativa nel campo sanitario e sociale Ciò vuol dire investire miliardi di euro e il MES deve essere usato per fare questi investimenti, con un’idea nuova di riforma socio sanitaria territoriale, solo lo Stato può governare l’intero sistema in maniera strutturale. Abbiamo bisogno di ripristinare una forte capacità di direzione di governo statuale universale dalla tutela dei diritti dei cittadini e dobbiamo usare l’innovazione tecnologica, la robotica e tutte le strumentazioni disponibili per aiutare le persone, sviluppare al meglio la protezione sociale.
Ad esempio?
Dovremmo investire sulla ricerca, l’Italia è sempre stata un passo indietro su questo, mentre invece abbiamo bisogno di ricercatori, se fosse stata più forte e più significativa forse non saremmo arrivati nella situazione di crisi odierna. Inoltre bisogna investire sul Welfare, perché significa investire sull’occupazione, sulla qualità dell’occupazione, non è un peso, costo economico, come spesso si è detto nel passato, anzi, può essere un motore di sviluppo economico. Investire per esempio sui giovani, superando le baronie, abbiamo quindi necessità di un grande sforzo riformatore come negli anni ’70: istruzione, formazione, ricerca, sanità e investire sul sociale. Dentro questo disegno si inserisce un nuovo progetto di protezione sociale per i diritti del lavoro, quindi nuovi ammortizzatori sociali.
Emanuele Ghiani