Che ci sia bisogno di un nuovo patto concertativo per lo sviluppo e la crescita del Paese è fuori di dubbio. E’ altrettanto fuori di dubbio che gli attori protagonisti del patto sono totalmente inadeguati. Ovviamente non parlo delle persone ed inoltre tengo a precisare, a mio modesto parere, che ogni paragone-parallelismo con gli accordi concertativi dei primi anni novanta del secolo scorso è assolutamente improponibile. Gli accordi di quegli anni si fondavano sulla responsabilità e sull’impegno di coerenza degli atti delle parti al fine di raggiungere un obbiettivo condiviso, che, guarda caso, era ancora il risanamento e lo sviluppo del paese con all’orizzonte l’ingresso nella moneta unica europea. Ma erano altri scenari economico-politici italiani e mondiali e un’ altra società: eravamo in piena tangentopoli, la Cina non era vicina, non si poteva neppure immaginare la tragedia delle Twin Towers, ma neanche che ci sarebbero state più utenze cellulari che italiani e che per trasferire un calciatore da una squadra all’altra si potessero sborsare la bellezza di quasi 100 milioni di euro (che manco esisteva e tradotto in lire fa la bella cifra di 200 miliardi!…e senza che nessuno s’indigni). Allora, dove sta l’inadeguatezza degli attori? Cominciamo dall’Esecutivo che ha deciso che si può fare a meno dei cosiddetti corpi intermedi per governare la società e dunque ha messo tra le varie ed eventuali il confronto tra le parti sociali. Renzi non sbaglia se immagina una disintermediazione dove ognuno torni ha svolgere il ruolo che gli è proprio, senza inopportune invasioni d campo, ma commette un errore, che può rivelarsi fatale, se pensa che questo possa avvenire per decreto e soprattutto se non si è in grado di riproporre un equilibrio di responsabilità. Il “ghe pensi mi”, come si è visto, non funziona. Dopo il Governo c’è quello che una volta si chiamava il fronte padronale. Mantenendo salda la vocazione industriale del Paese, non può esserci crescita e sviluppo, che non coinvolga tutti i settori che l’economia classica divide in: primario, cioè l’agricoltura; secondario, l’industria; terziario, servizi e turismo e soprattutto credito. Ci sarebbe anche il pubblico impiego, ma, se mi si passa la battuta, siamo nel quaternario geologico. Ovviamente Confindustria porta le responsabilità maggiori essendo hub portante della rappresentanza dei datori di lavoro, ma pare sfuggirgli che in Italia la dorsale manifatturiera è fatta per oltre il 90% di medie, piccole e piccolissime imprese. Dunque la dimensione d’impresa è un nodo essenziale per lo sviluppo. Inoltre le grandi imprese concertano e competono già per conto proprio. Una nota di demerito riguarda la capitalizzazione delle imprese, solo il 30% è quotato in borsa, per non parlare, poi, della vocazione al capitalismo finanziario a scapito di quello manifatturiero e soprattutto al sistema del credito bancario, piuttosto restio ad accompagnare lo sviluppo dell’impresa stessa e le start up, così come a finanziare percorsi didattico-formativi. Veniamo al sindacato. Qui sono le note più dolenti, perché qui si trovano i gran sacerdoti del conservatorismo e le resistenze maggiori al cambiamento. A parole sembra che siano tutti per il cambiamento, nei fatti, però, non c’è traccia significativa di aggregazioni nei settori manifatturieri, cioè, il tanto invocato sindacato dell’industria che favorisca, a livello nazionale, politiche contrattuali di quadro e, sul territorio e in fabbrica, sviluppi al massimo la contrattazione decentrata. Poi continua pervicacemente una politica contrattuale che si ostina a non voler vedere che il paese è squilibrato, che gli insediamenti industriali e i distretti sono concentrati solo in alcuni parti, che esistono forti differenze sulle percentuali occupazionali e demografiche. Forse una sana riflessione sulla inopportunità di usare la stessa medicina per malattie diverse è opportuna e non rinviabile ; ma se un caffè in alcune aree del paese costa 0,80 centesimi e in altre un euro e cinquanta oppure (ne sono testimone diretto) se la benzina in alcune zone del leccese costa 1,200 euro al litro, mentre sulla tangenziale est di Milano sfiora 1,500 euro, bisognerà pur farsi qualche domanda ( e magari darsi una risposta, per dirla con Marzullo). Giusto per inserire un ulteriore elemento di riflessione, bisogna anche valutare appieno il peso dei cosiddetti settori esposti alla globalizzazione da quelli che questo rischio non lo corrono ed anche riflettere se una maggiore concorrenza sindacale sia più utile di una forzata unità. Insomma di concertare è tempo, ma qualche attore non si è accorto che siamo già al quarto atto e il prossimo sipario che cala è quello della fine della commedia.
Valerio Gironi