Di fronte alla morte sul lavoro, bisognerebbe rimanere in silenzio. E riflettere sul perché ciò continua ad accadere. Non è solo una questione di norme, di rispetto delle regole, di dispositivi di protezione dai rischi. E neanche di buona volontà a fare meglio le cose, come pure apprezzabilmente, in diversi casi, avviene. La ragione è più profonda. Da anni ormai, il lavoro, assorbito culturalmente dalla netta svolta liberista dell’economia, ha subito una forte svalutazione. Ridotto a impiego, a occupazione, ad adattabilità, quando non a merce, il lavoro è stato espropriato dei suoi significati più importanti per l’esistenza delle persone.
Francesco Novara, responsabile a metà anni settanta del Centro di psicologia all’Olivetti di Ivrea, definiva il lavoro come un dato originario interno a ciascuna persona, che concorre a dare senso alla vita e chiama in gioco le emozioni e l’affettività nella relazione con gli altri attorno a un compito e al ben fatto. Siamo ben distanti da questa cultura del lavoro, e ciò trova ulteriore conferma oggi nella forte mobilità che si registra, soprattutto da parte delle giovani generazioni, alla costante ricerca di un lavoro che consenta di esprimere sé stessi, in ambienti organizzativi accoglienti, con relazioni intersoggettive cooperative, capace di tenere in equilibrio il tempo dell’esperienza professionale con quello da dedicare al resto della vita. L’alternativa, dolorosa per il nostro paese, ma spesso appetibile professionalmente per i giovani, è andare via dall’Italia.
Come dice il filosofo Carlo Sini, non sono gli uomini a fare un lavoro, ma è il lavoro a farci esseri umani. In assenza di questa condizione positiva, si cade sul lavoro non solo quando si perde la vita, tragedia inaccettabile, ma ogni volta che il lavoro invece che gioia – come auspicava Adriano Olivetti – diventa sofferenza, discriminazione, born out, mobbing, molestie, depressione, riduzione alla sua dimensione materiale. Ma non di solo pane vive l’uomo, e siccome la vita è una, va ben spesa. Il linguaggio dominante sul lavoro, tuttavia, carico di retorica, tende ad appannare questa prospettiva di senso preferendo categorie culturali economicistiche, come se tutto fosse mercato, anche quello del lavoro. In questo senso rimane attualissima la lezione di Robert Solow, premio Nobel per l’economia, quando nel suo pamphlet Il mercato del lavoro come istituzione sociale, scriveva che il mercato del lavoro, proprio perché abitato da persone e relazioni sociali, aspirazioni e progetti esistenziali, non può essere considerato alla stregua del mercato del pesce!
Da queste riflessioni siamo partiti con la Fim e la Cisl di Teramo quando è emersa la proposta di organizzare un evento per ricordare Tonino Fanesi, operaio metalmeccanico morto sul lavoro a 49 anni. Un dolore infinito, per i familiari, per il sindacato, per la comunità locale. La morte di Tonino, ci siamo detti, deve essere feconda, deve parlarci ancora, deve smuovere le coscienze, affinché non sia stata vana. La moglie Gabriella, dopo la sua morte, aveva scritto in una toccante lettera: Tonino non deve diventare un numero!
Un monito contro l’indifferenza, che spesso è figlia della retorica, che nei casi delle morti sul lavoro, abbonda sulla bocca di molti. Basta seguire un notiziario televisivo, dopo un incidente mortale sul lavoro, per rendersene conto. Ciò ha suggerito di progettare un evento fuori dall’ordinario, non consueto nella forma comunicativa che potesse arrivare dritto al cuore delle persone. Così è nata l’idea di mettere in scena, attraverso il teatro, il lavoro e il suo mondo, le sue criticità, la sua bellezza: un evento pensato certo come memoriale di una tragedia – quella che ha colpito Tonino e tante altre persone nel nostro paese – ma soprattutto come evocazione di quelle dimensioni, spesso mancanti nel lavoro, decisive per un’esistenza riuscita. Nel flusso comunicativo mediatico e social nel quale siamo avvolti, rischiamo, infatti, di perdere la bussola e poche cose, soprattutto tra quelle importanti, ci restano dentro. Spesso anche la comunicazione istituzionale risulta fredda e sterile, perché scontata, burocratica. Perciò il penso dunque sono di cartesiana matrice deve lasciare il posto al sento dunque sono, come indicano le neuroscienze cognito-affettive, se vogliamo rigenerare l’attenzione per gli altri e la motivazione dell’impegno civile, sindacale, politico, per trasformare, nel nostro piccolo, il mondo e il lavoro.
In questo solco educativo e politico, si propone in maniera significativa il linguaggio artistico, poetico, e in particolare quello del teatro, come possibilità di replicare spaccati esistenziali da mettere sotto osservazione e rielaborarli ri-attraversandoli: mettendo in azione il corpo, le emozioni, i sentimenti, per uscire dalle meccaniche che ci costringono nella routine e nel conformismo. Il teatro ha questa capacità: toccare le corde più sensibili e arrivare ai livelli più profondi del nostro mondo interno, scuotendoci dalla pigrizia e dall’indifferenza. Così è nato, sotto la guida esperta e sapiente del regista attore e drammaturgo, Thomas Otto Zinzi (creatore del laboratorio teatrale “Il mestiere dell’emozione”, che da dieci anni peraltro ha anche un suo spazio permanente nella formazione dei dirigenti della FIM Cisl), il canovaccio drammaturgico dal titolo Passione secondo Tonino. Oltre l’indifferenza, tradotto in rappresentazione teatrale il 29 ottobre scorso a Teramo, a due anni dalla morte di Tonino Fanesi. Palcoscenico: il capannone di una fabbrica dismessa.
Attorno ai testi dello stesso Zinzi, che hanno fatto da fil rouge dello spettacolo, sono stati assemblati nella drammaturgia scritti di Gramsci, Pasolini, Bertozzo, Nella Nobili, Olivetti, Arthur Miller, Buzzati, Elliot, canzoni di Pino Daniele, Dalla, Fossati e dei Beatles, cantate dal Chorus Novus di Teramo sotto la direzione del maestro Paolo Speca. Nella rappresentazione hanno trovato posto anche delle voci sospese provenienti dall’etere, ad arricchire di tematiche inerenti la vita familiare e il lavoro l’interlocuzione con Tonino-Thomas Zinzi. Nell’insieme è scaturita una ricomposizione dei molti aspetti che ruotano attorno al lavoro e le loro implicazioni soggettive e sociali – l’emigrazione, il precariato, la relazione con l’altro, la discriminazione delle donne, la violenza, la dignità, la tecnologia, la salute mentale, la passione per il lavoro, il senso di appartenenza a una comunità – non solo nella direzione della denuncia delle criticità da superare, ma soprattutto nell’ottica di un approdo desiderabile e perciò di un nuovo linguaggio sul lavoro.
Tra i diversi quadri scenici presentati dall’Opera, particolare sensazione tra il pubblico, composto per la maggior parte da studenti delle scuole professionali, ha destato l’entrata in scena di un rider – interpretato da un giovane attore, Davide Giovannini – che impietosamente racconta (alla luce di fatti che accadono ogni giorno) la sua storia di sfruttamento, fatta di tempi di lavoro asfissianti, che non concedono pause fino al punto, per rispettare le consegne, di dover fare la pipì in una bottiglia sul suo mezzo di trasporto. Travolgente, sul piano emotivo, la scena finale della pièce teatrale, rimasta sospesa tra la poetica de La Rocca di Thomas Elliot che indica la strada da intraprendere – “Costruiremo con nuovo linguaggio. C’è un lavoro comune” – e la figura di Tonino-Thomas Zinzi che insieme al rider vanno a comporre, con i loro corpi devastati, sul muro fatiscente del capannone, illuminati da un fascio di luce, l’immagine di una croce, memoria e simbolo di una morte dolorosa e ingiusta che mentre chiede giustizia per ciò che è stato, invoca responsabilità verso il presente.
È questa la domanda di Tonino che, grazie alla potenza dell’azione drammaturgica, è potuto tornare per qualche ora tra noi. E dal palco, posto nel capannone di un’azienda dismessa come simbolo di un lavoro impoverito, chiede a noi se qualcosa nel frattempo è cambiato, o sta cambiando, e se la sua morte è servita a smuovere le coscienze, a migliorare quelle condizioni del lavoro che rendono gli uomini e le donne esseri umani.
Straordinaria è stata la risposta di un pubblico visibilmente emozionato, composto da circa quattrocento persone che hanno mostrato sonoramente il loro coinvolgimento con applausi a scena aperta e con l’interminabile standing ovation finale. In platea spiccava la presenza di duecento studenti delle scuole professionali di Teramo, ai quali prioritariamente si è pensato di rivolgere l’invito a partecipare, nell’ottica di seminare in profondità una cultura della prevenzione e della sicurezza incastonate nel riconoscimento della dignità del lavoro. Un obiettivo educativo che non può essere confinato alla sola dimensione razionale, cognitiva, ma che necessita di passare attraverso la cura della dimensione emotiva nei processi formativi, per rigenerare costantemente il senso e i significati del nostro agire, altrimenti intrappolati e condizionati in un funzionalismo che ostacola il cambiamento. Di ciò, soprattutto la scuola, l’università e la formazione professionale, oltre a quella sindacale, bisognerebbe ne facessero tesoro.
Qualcosa si muove e l’evento di Teramo è la conferma di una sensibilità forte sulla sicurezza sul lavoro. Ne è testimonianza la nascita sul territorio, da alcuni anni, di un Osservatorio voluto dalle parti sociali e dalle istituzioni locali, per fronteggiare la situazione e far crescere una cultura della prevenzione.
Ma il messaggio più importante della giornata del 29 ottobre 2024, è venuto dalla partecipazione alla rappresentazione teatrale, malgrado il dolore di una ferita ancora aperta, della moglie di Tonino, Gabriella e dei figli Samuele, Matteo e Davide.
Un invito incoraggiante a non arrendersi.
Rosario Iaccarino