Dispiace dirlo. Ho confrontato i programmi dei vari schieramenti politici in materia di lavoro e vi ho visto molte proposte interessanti ma un limite, purtroppo comune. Il lavoro è considerato come un effetto, una conseguenza dell’andamento del mercato, non un obiettivo e un mezzo per far crescere l’economia (e quindi anche il mercato). La maggior parte delle proposte (sia a destra che a sinistra) girano attorno all’idea di facilitare le imprese esistenti ad assumere o a stabilizzare il lavoro con incentivi soprattutto di natura fiscale. Come se bastasse lubrificare gli ingranaggi perché il motore delle imprese ricominci a girare più sciolto e veloce e a produrre un maggiore equilibrio tra domanda e offerta di lavoro (e quindi una sua crescita quantitativa e qualitativa).
Molti programmi dei partiti danno per scontato che il mismatch tra domanda e offerta dipenda da una insufficiente competenza soprattutto dei giovani che cercano lavoro (e non da fattori legati ai mercati, alla dimensione delle imprese e alla loro scarsa produttività e innovazione). Ma questo è tutto da dimostrare: la crescente emigrazione delle giovani competenze infatti dice il contrario. E anche se si determinasse un perfetto equilibrio tra domanda e offerta (cosa difficile da credere) attraverso gli incentivi alle imprese, chi garantisce che ciò possa raggiungere la piena occupazione? Nessuno. E allora, di cosa stiamo parlando? Di politiche del lavoro che intervengono ad alleviare i sintomi e non a rimuovere le cause della bassa occupazione di giovani e donne. Politiche placebo o, al massimo, di riduzione dei sintomi negativi, non politiche di rilancio della domanda aggregata.
È certo importante che tutti i programmi dei partiti insistano sulla necessità di stabilizzare e qualificare un lavoro troppo precario, irregolare e sottopagato ma è difficile credere che senza piena occupazione (con un rilevante “Esercito Industriale e Generazionale di Riserva”) si possano ottenere per legge i miglioramenti qualitativi che tutti auspicano e dare nuova dignità e sicurezza al lavoro. In sintesi, le politiche proposte, anche quelle condivisibili, nei programmi elettorali dei partiti sono politiche di profilo “micro” (economiche e sociali), senza il respiro necessario ad affrontare le crisi e le transizioni di cui tutti parlano.
Eppure a leggere i programmi dei partiti, al di là delle diverse priorità indicate da ciascuno, emerge chiaramente l’idea che è necessario mutare il “paradigma” dello sviluppo per superare le crisi in corso e ridurre le diseguaglianze sociali ed economiche. Si parla giustamente di sanità di prossimità, di agricoltura verde, di transizione energetica, di riduzione dei rischi idrogeologici, di trasporti meno inquinanti, di un sistema di istruzione più moderno e inclusivo, di infrastrutture più diffuse, di digitalizzazione, di rigenerazione urbana, efficienza della pubblica amministrazione, efficacia delle istituzioni, come leve per aumentare il benessere e la sua diffusione omogenea nel territorio italiano. Bene, ma chi avvia e garantisce concretamente queste cose? Lo Stato per conto suo? Non è credibile. Le imprese e il mercato da soli? Nemmeno. È strano constatare che (a destra come a sinistra) si individuano i bisogni e le priorità e si rimuove l’idea che sia necessaria una politica “macro economica” (e sociale) che aiuti, con la nascita di nuove imprese e nuovo lavoro, a corrispondere con opere e servizi a quei bisogni. Nessuno dice (e questa mi sembra la vera lacuna programmatica dei partiti) che bisogna tornare a una politica di investimenti pubblici mirati e smetterla con la distribuzione di risorse correnti e atomizzate in mille sussidi, a partire da una attuazione coerente e seria del PNRR.
Quasi tutti i programmi elettorali indicano la necessità di rivedere (e potenziare) il “Reddito di cittadinanza”. Qui è d’obbligo essere chiari, anche a costo di essere irrispettosi. Certo che va garantito e ampliato un intervento economico che sia in grado di ridurre le tante forme di povertà che vanno crescendo ma il “Reddito di cittadinanza” con il lavoro non c’azzecca nulla (le statistiche lo confermano). E nemmeno con la piena cittadinanza. Sono 3 i pilastri per assicurare una reale piena cittadinanza (fatta di uguaglianza di diritti e di doveri) alle persone che vivono nel nostro Paese (nativi o migranti che siano): la casa, la scuola, il lavoro. Anche in questo caso sarebbe utile uno sguardo macro invece che perdersi nei piccoli miglioramenti: una politica di inclusione per tutti e non la semplice accoglienza o la marginalizzazione sociale assistita. La rigenerazione del patrimonio edilizio esistente (a partire da quello pubblico) nelle città e nei paesi, la diffusione della scuola di infanzia dalla nascita in tutti i territori, l’aumento dell’obbligo scolastico fino a 18 anni, l’allargamento delle iscrizioni alle Università e poi le occasioni programmate di lavoro a giovani e donne: un lavoro socialmente, ambientalmente ed economicamente sostenibile. È necessario un “Piano straordinario del lavoro” per giovani e donne (come accadde con la legge del 1977), le attuali politiche attive del lavoro tutto sono tranne che attive.
Io sono sempre stato di sinistra e quindi voterò a sinistra (a prescindere). Però mi piacerebbe poter condividere un programma serio di innovazione del nostro Paese per cui valga la pena rimboccarsi le maniche e partecipare attivamente, non solo assistere alle tante enunciazioni verbali.
Gaetano Sateriale