La rappresentanza e la rappresentazione della vita sociale in Francia sono poco visibili né comprensibili per il lettore italiano non specializzato: l’immagine proposta dalla stampa generalista non permette di distinguere le peculiarità della situazione d’oltre Alpi. La descrizione sia della configurazione delle parti sociali che dei conflitti e movimenti sociali da diversi anni manifesta differenze istituzionali e culturali notevoli con la situazione italiana.
Parti sociali: gli attori del confronto sociale? La presenza stessa dello Stato come attore egemonico della scena sociale è spesso messa in risalto. Per esempio, l’esistenza di un salario minimo orario legale risale al 1968 (Tony Bair l’ha introdotto in Gran Bretagna nel 1999 e la coalizione CDU-SPD in Germania solo nel 2017). L’architettura dei contratti settoriali per ciò che riguarda lo stipendio si costruisce su quella base legale, un tempo per migliorarne l’ammontare al livello settoriale.
Le “parti sociali”, come si suol dire, mettono a confronto in Francia 2 pluralità di attori abbastanza asimmetrici.
Da una parte, un insieme di organizzazioni datoriali strutturate attorno alla grandezza dell’impresa: il MEDEF Confindustria per la grande industria e i servizi, la CGPME per le piccole e medie imprese e l’UPA per l’artigianato: un insieme abbastanza coerente nonostante interessi per parte conflittuali tra imprese ”core” e fornitori o subappalti, tra industria e servizi, tra ditte tradizionali e innovative, tra multinazionali magari francesi e aziende territorialmente radicate.
Dall’altra parte, in rappresentanza del salariato (e quasi per niente del subordinato e delle partite IVA: auto-imprenditori), una costellazione di organismi sindacali confederali e non. Alle 5 confederazioni tradizionali: la CGT 1906, un tempo prossima alla CGIL, forte soprattutto nel settore ex-pubblico “a statuto”, la CFDT 1964, un tempo vicina alla CISL, forte soprattutto nelle grandi aziende private, che ha superato la CGT alle ultime elezioni professionali, la CGT-FO, un tempo simile alla UIL, forte anche lei nel settore para-pubblico, la cristiana CFDT 1919, la CGC dei quadri 1948. Ci si aggiungono da qualche anno l’UNSA nel settore pubblico, non dissimile dalla CFDT e SUD nel para-pubblico, abbastanza simile ai Cobas italiani. Settore pubblico e para-pubblico, aziende “a statuto” ex-pubbliche e grandi aziende private, soprattutto nell’industria: i settori di forza del sindacalismo francese sono centrali per la produzione e la circolazione economica. Però riguardano solo il 5% circa della manodopera salariata nel privato. Altri settori di attività sono quasi esclusi di ogni presenza sindacale: piccole e medie imprese, servizi, logistica. L’aderente del sindacato rimane spesso un uomo o una donna maturi nel pubblico e para-pubblico e un uomo maturo dell’industria. Donne, giovani, popolazione di origine straniera sono di rado aderenti a un sindacato, salvo in caso di conflitto sociale locale. Questa debolezza del sindacato francese (anche rispetto a diversi paesi europei) tende ad aggravarsi. Viene parzialmente compensata con l’inserimento nelle istituzioni paritarie (convenzioni settoriali ed accordi aziendali) o rappresentative (Regione, CESE, cioè CNEL francese…) numerose, che permettono di mantenere una visibilità nel paesaggio sociale francese. Infine, la frammentazione non impediva fino a poco fa la capacità per certe confederazioni di mobilitare parti notevoli dei lavoratori dipendenti, magari non iscritti al sindacato. I “movimenti sociali” francesi di questi ultimi decenni hanno avuto un rapporto di autonomia complesso col sindacato diviso e in concorrenza, creati, stimolati e anche frenati secondo le congetture temporali: dal 1995 fino al 2018, si sono successi su temi diversi (pensioni, stipendio minimo dei giovani, diritto del lavoro, liberalizzazione-privatizzazione delle ferrovie…) e con modalità simili (scioperi settoriali, manifestazioni spesso massicce, in certi casi blocco di riserve di combustibili…) ma il più delle volte con sconfitte importanti di fronte alle aspettative dei partecipanti. Al contrario, i conflitti sociali locali marcati da una maggior autonomia della base sindacale hanno potuto avere in certi casi esiti più favorevoli per i dipendenti coinvolti. Ma comunque il sentimento frequente di isolamento e di rassegnazione ha potuto contribuire a un ulteriore indebolimento delle organizzazioni sindacali.
In questo contesto, l’emergenza del movimento dei Gilets Gialli durante il mese di novembre 2018 ha sorpreso molti osservatori: il suo carattere imprevisto, improbabile per molti esperti, l’emergenza di popolazioni finora spesso invisibili (“periferiche”) hanno marcato le menti per diverse settimane. I riferimenti storici alle Jacqueries (le rivolte antifiscali dell’Ancien Régime sempre finite in repressioni sanguinarie) e al poujadismo del 1956 (la rivolta anti-fiscale ed anti-concentrazione di artigiani e commercianti sconvolti dall’urbanizzazione e l’industrializzazione veloci della Francia degli anni 1950) hanno mostrato la difficoltà a definire un movimento originale e forse effimero. La sequenza rapida che ha visto il succedersi di momenti particolari (rifiuto di una tassa sul gasolio presentata come ecologica, ma dopo i “bus Macron” e le dimissioni dell’ambientalista Nicolas Hulot da ministro dell’ambiente a fine estate, e vissuta come una ennesima tassa iniqua sui ceti poco abbienti un anno dopo la soppressione della patrimoniale sui ricchi ISF, e di conseguenza rivolta fiscale in nome della giustizia sociale, richiesta di un ripristino dei servizi pubblici abbandonati e/o privatizzati, richiesta del RIC referendum di iniziativa cittadina di fronte alla delegittimazione del ceto politico, denuncia delle violenze poliziesche contro i manifestanti…), i modi originali di espressione (picchetti sulle rotonde, parcheggi di ipermercati, caselli autostradali, manifestazioni convocate sui social), le caratteristiche socio-demografiche degli attivisti (età media matura, ceti popolari non poveri, pensionati, molte donne sole con figli, pochi francesi di origine straniera recente): tutto sembra rimettere in questione la distinzione frequente tra movimenti sociali “materialistici” e “post-materialistici”. La convergenza tra Gilets Gialli e sindacati non c’è stata veramente finora: la sfiducia dei primi nei confronti di delegati in nome della democrazia diretta e il timore dei secondi di favorire l’estrema destra presente nel movimento accanto ad altre componenti non hanno permesso un avvicinamento. Ma la fragilità dei Gilets Gialli e la difficoltà a creare una perennità cosi come la crisi profonda del sindacato rivendicativo ad affrontare il blocco governativo e confindustriale potrebbero provocare una convergenza nel futuro?
Jean-Oliver Mallet